Giovane ricercatore del Primiero studia su base genetica le patologie del cuore

di Manuela Crepaz

“Circulation”, la principale rivista dell’American Heart Association, ha recentemente pubblicato un importante studio su base genetica che porta la firma, come primo autore, del primierotto Francesco Mazzarotto. Classe 1987, Francesco è un giovane assegnista di ricerca all’Università degli studi di Firenze e, part-time, presso l’Imperial College di Londra, dove studia le basi genetiche di alcune malattie cardiache come le cardiomiopatie e le canalopatie. Nel tempo libero si dedica allo sport tra calcio e palestra, adora esplorare le colline toscane e le montagne trentine, viaggia quando può e si gode la compagnia di amici, famiglia e fidanzata.

Qual è l’importanza dello studio?

«Ho lavorato assieme ad un pool di colleghi dell’università londinese e collaboratori di Boston, Singapore, Oxford e Amsterdam sulla cardiomiopatia dilatativa (Cmd).
L’analisi ha utilizzato i dati genetici di circa 2500 pazienti, il più grande gruppo mai descritto geneticamente, e 1000 volontari sani, oltre a un database pubblicamente accessibile di circa 60 mila individui di varie popolazioni. Il principale risultato è la conferma, tramite metodi statistici, del ruolo certo di 12 geni nel causare Cmd, responsabili di circa il 25% dei casi. Lo studio fa finalmente chiarezza sulla base genetica di questa malattia, un importante punto fermo per la ricerca in questo ambito».

Cosa sono le cardiomiopatie?

«Nella Cmd, che colpisce circa una persona ogni 250, la parete del cuore si assottiglia e il cuore si dilata, e con il progredire della malattia diviene via via incapace di svolgere la sua funzione, spesso portando i pazienti alla situazione in cui il trapianto cardiaco rappresenta l’unica speranza».

Come si è appassionato alla materia?

«Alla fine della laurea triennale in biologia all’università di Bologna, ho scelto bioinformatica in lingua inglese. La lingua non era un handicap perché avevo trascorso sei mesi in Nuova Zelanda durante l’anno della quarta superiore. Invece, non conoscevo bene l’informatica e non ero affatto sicuro che un lavoro “computer-based” avrebbe fatto per me, ma il mio sogno era avvicinarmi al mondo della polizia scientifica e delle analisi genetiche forensi. La bioinformatica rappresentava un grosso avvicinamento. La scelta si rivelò vincente e mi laureai in due anni, dopo aver sviluppato la tesi presso l’università di Tampere in Finlandia, dove trascorsi sei mesi in Erasmus».

Una volta laureato?

«Giunse il periodo più incerto: trovare lavoro. Durante l’estate, tramite un amico di università, mi arrivò l’annuncio che poi rivoluzionò tutto. All’Imperial College, cercavano qualcuno con un background misto tra biologia e bioinformatica per un dottorato di ricerca finanziato dall’Unione europea, con una borsa “Marie Curie”. Le borse “Marie Curie” sono estremamente competitive, e mai avrei pensato di essere selezionato. Incredulo, decisi di accettare e mi trasferii nel Regno Unito, dove iniziai a fare ricerca per comprendere le basi genetiche di diverse patologie cardiache. I tre anni che seguirono furono la mia rampa di lancio a livello professionale - ero in una delle università più quotate al mondo, assistevo e venivo coinvolto in progetti di ricerca di fama internazionale, viaggiavo tanto, e ho imparato moltissimo - oltre ad aver trovato dei capi davvero meravigliosi».

Un’esperienza positiva?

«Gli anni di dottorato passarono tra momenti di entusiasmo e difficoltà, in una città che porto nel cuore ma anche molto difficile per alcuni aspetti come Londra. Alla fine, nonostante l’offerta di un “post-doc” (lo step naturale dopo il dottorato nel mondo universitario, ndr) nello stesso gruppo di ricerca, decisi di tornare in Italia, ponendomi l’obbiettivo di continuare a lavorare con il gruppo londinese. Fu così che approdai a Firenze, nell’estate del 2016».

Ed è tornato in Italia. Com’è fare ricerca qui?

«Non è facile, soprattutto a causa della difficoltà nell’ottenere un inquadramento stabile a livello contrattuale per noi giovani, che costringe a lasciare sempre tutto in sospeso e spesso ad abbandonare l’idea di una carriera accademica. Ad ogni modo, anche qui ho trovato un capo con cui mi trovo benissimo e per ora sono felice di essere dove sono».

Com’è il suo lavoro?

«È quasi interamente al computer, il che mi permette di lavorare in remoto, anche dal mio amato Primiero. Grazie all’accordo con l’Imperial College, da quasi quattro anni vivo a Firenze e trascorro una settimana ogni tre mesi a Londra. Questa soluzione ha fatto nascere una collaborazione tra l’Università di Firenze e l’Imperial College, che sta portando a degli ottimi risultati. Poi, una parte importante del lavoro, oltre che un’occasione per viaggiare, è la partecipazione a congressi dove presento i risultati ottenuti».

Che prospettive vede con la Brexit per le tue ricerche?

«È difficile dirlo ora. Non penso ci saranno grosse conseguenze per me, in quanto sono impiegato dall’università italiana. Certo che la Brexit è causa di grande preoccupazione nel mondo scientifico. Per esempio, anche in Gran Bretagna diversi progetti di ricerca erano finora finanziati da fondi europei, come il mio stesso dottorato. La scienza vive di collaborazioni e in parte anche di finanziamenti internazionali, quindi molto dipenderà da che accordi verranno presi tra Gran Bretagna e Unione europea nel corso del 2020».

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