Dobbiamo riaprire le case di riposo

La lettera al giornale

Dobbiamo riaprire le case di riposo

Ricevo continue richieste dai familiari di aprire la casa di riposo ai loro cari. Leggo inoltre che tante sono le richieste, lettere, suppliche a vari destinatari. Siamo in un momento duro, ogni giorno si sentono descrivere situazioni tragicamente nuove per le quali, secondo me, vale la pena metterci la faccia a sostegno di chi le lamenta.

Mi trovo ad appoggiare tutti quelli che condividono le loro istanze. Conosco la situazione della case di riposo (ci lavoro), e so dell’impegno di ogni mio collega, medico, professionista, eccetera. Tanti sono gli ospiti soli o con familiari lontani o che, seppur vicini, non li vanno a trovare, ma per chi lo desidera ha ragione chi ne fa richiesta, è giunto il momento di poterlo fare, nelle modalità corrette. Smettiamola di parlare male delle Rsa, solo chi tutti i giorni e notte porta assistenza e rispetto per gli ospiti sa qual è stato il sacrificio assunto e ancora attivo.

Stabilire un decalogo di regole e impegno con chiari limiti, come stanno facendo tutti i miei colleghi e personale che li cura, facendo tutti i protocolli come per esso previsti, passando dai controlli: questo o altro ma permettete ai familiari che possano vederli. Vi sostengo e ci metto la faccia come mia abitudine e tutta la forza e con tutto il cuore. Va trovata una soluzione che consenta le visite in massima sicurezza e se si vuole si può fare. Non vuol dire abbassare la guardia, anzi alzare il rispetto, la positività e l’amore per queste sfortunate persone. Perché i nostri residenti hanno bisogno anche del confronto con le figure familiari, ricevere un sorriso, una parola di uno sguardo di presenza.

Se non vogliamo perdere una generazione di storia, amori, eventi, racconti dobbiamo ripartire da questo, senza lasciare indietro i sentimenti con la distanza o assenza.

Renato Zucchelli


 

Ma i dati non ci confortano

«Se si vuole si può fare», scrive lei. E poi aggiunge: «I nostri residenti hanno bisogno del confronto con le figure familiari». Il punto sta tutto qui. Va trovata una soluzione per evitare che si muoia di solitudine. Va trovata una soluzione per permettere a quei sorrisi, a quelle parole, agli sguardi e alle carezze virtuali di raggiungere chi da troppo tempo soffre il dolore dell’abbandono, anche se certo non di abbandono si tratta. L’autonomia dovrebbe servire anche a questo, anche se - non smetto di ricordarlo - i dati purtroppo continuano a non essere confortanti, per quel che riguarda strutture che restano le più fragili, le più a rischio.

lettere@ladige.it

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