Montagna / L'intervista

Manolo: «La montagna è una maestra di vita, ma per me non è tutto»

Parla il celebre alpinista Maurizio Zanolla, classe 1958, icona dell’arrampicata ai massimi livelli. «Se hai una mentalità sufficientemente aperta, ti prendi cura del fisico e dell’aspetto spirituale e puoi fare cose difficili anche a questa età»

di Fabrizio Torchio

Nel gennaio 1924, quando un giornalista chiese all’inglese George Mallory perché avesse voluto scalare l’Everest (dopo i tentativi del 1921 e del ’22, l’8 giugno 1924 sarebbe scomparso nelle nubi insieme ad Irvine), l’insegnante - alpinista rispose: «Because it’s there»: perché c’è. O, letteralmente, «perché è là». La frase di Mallory è divenuta celebre e probabilmente vi allude il titolo di una tavola rotonda dedicata ai significati odierni che la montagna ha per noi, svoltasi ieri, nell’aula grande della Fbk Kessler in via Santa Croce a Trento, organizzata da Trento Filmfestival con Fbk e Piccola Libreria.

Per cogliere il senso dell’incontro, “Perché è là. La montagna come rompicapo esistenziale”, è utile affiancargli il titolo dell’intera carrellata di appuntamenti, “Il senso impervio: vette e abissi dell’interpretazione estrema”, itinerario di risposte e di possibili perché. A parlarne, moderati dal filosofo Paolo Costa, saranno un musicista, Sebastiano Beozzo, uno scrittore, Antonio G. Bortoluzzi, e Maurizio Zanolla “Manolo, classe 1958, icona dell’arrampicata ai massimi livelli, con il quale cerchiamo di toccare aspetti della vita che accompagnano la storia dell’uomo sui monti e sui quali in tanti hanno ragionato.

Può aiutarci qualche citazione, per focalizzare ciò di cui si parla: John Ruskin, intellettuale vittoriano conquistato dalle Alpi, analizzò l’influenza delle montagne sull’uomo: sul temperamento religioso, sul potere artistico, su quello letterario: «Il loro terrore porta a slanci devoti di pensiero; la loro bellezza e natura selvaggia stimolano al tempo stesso l’invenzione…».

All’inizio del XX secolo, uno scalatore paladino della purezza come Paul Preuss considerò le vette come il metro con cui misurare le forze e il goriziano Julius Kugy esortò a pensare le relazioni fra la montagna e l’uomo come alla fonte di elementi per riflessioni ben più ampie della vita alpina.

A Manolo abbiamo chiesto della montagna anche come terreno di esplorazione interiore, delle sensazioni dell’ascesa e della vetta, del benessere psico-fisico del confronto con una natura ingigantita, delle paure del mondo verticale che ci sovrasta. Ma siamo partiti dalla sua vita di tutti i giorni, dal maso in vista della valle di Primiero.

Anzitutto, come scorre la vita quotidiana di Manolo?

Tranquilla, ho fatto le scorte di legna e ordine attorno ai prati. Penso anche a proteggermi dal freddo. Non faccio niente di particolare in questo periodo, è passata la stagione estiva ed è bello attendere la neve. È un po’ che non scalo, uso una certa routine quotidiana per mantenermi dignitosamente in forma. Ho un’età per cui non ho più tante ambizioni.  

E l’arrampicata non le manca?

No, è come lo sci. Ho scalato così tanto che ora sono più distaccato; ma se ho voglia mi impegno. Per una stagione intera non ho sciato, anche con un metro di polvere, e la neve non mi è mancata. Leggo un libro, faccio una passeggiata. L’importante è avere la possibilità di poter decidere. Non sono dipendente dall’arrampicata. 

Però è la dimostrazione vivente che a 64 anni, arrampicare ai massimi livelli è possibile, quasi uscisse da un romanzo di Oscar Wilde. Qualche pozione magica?

È possibile farlo anche a un’età più avanzata, un atleta può arrivarci. Io ho cominciato ad arrampicare un po’ tardi, dovevo lavorare, nel pieno delle forze psico-fisiche ho costruito una casa mettendo in piedi una teleferica e lavorando per un anno. Mi ritengo fortunatissimo, ma poi ti ritrovi con un fisico che ha subito queste cose. Mi rendo conto che quando ero più giovane pensavo a chi faceva il militare come a una persona vecchia, poi a 40 anni dici: provo ad andare avanti, a 54 anni ho fatto ancora cose difficilissime, a 60 anni altre. Non è che diventi saggio, ma cominci a guardare le cose in modo diverso. Se hai una mentalità sufficientemente aperta, ti prendi cura del fisico e dell’aspetto spirituale e puoi fare cose difficili anche a questa età. Quest’anno sono riuscito ad aprire qualche via nuova. Ma l’arrampicata ha avuto un’evoluzione straordinaria. E io sono più distaccato dall’ambiente. 

La montagna quindi non è tutto.

Per me non è mai stato tutto, ho sempre cercato un equilibrio nella vita. La montagna è stata un modo di evadere, di crescere. E poi, quale montagna? Ne esistono tante: quella sulla quale cresci, ad esempio, se ci vivi, ci lavori e magari hai degli animali, sei lì tutta la vita. Se vivi in montagna in quel modo non è facile. Dipende quindi da come vogliamo vedere la montagna: quella turistica, quella performante degli alpinisti... 

E qual è la sua montagna oggi?

Non più quella profondamente alpinistica. Le montagne le vedo sempre più alte, faticose. Sono lontane, non mi cadono sulla testa. Ma mi piace essere contornato da questo ambiente, non credo di avere nostalgia. È un ambiente che mi dà un’energia diversa. 

Nel 1990 con “O ce l’hai… o ne hai bisogno” la fermò una placca completamente liscia e verticale alla falesia del Baule sulle Vette Feltrine. Nel 2009, a 51 anni, è tornato liberando “Eternit” con difficoltà di 9a. C’è un segreto nel migliorare con l’età?

Le cose vanno così anche nello sport, non c’è un cronometro per cui a vent’anni corri cento metri in tot secondi. Quando ho iniziato non c’era l’arrampicata sportiva, ho contribuito alla sua crescita. E sono cresciuto, gli appigli che prima non tenevi cominci a tenerli, e quando fai questo è perché hai raggiunto un livello più alto, riesci a vedere cose che prima non vedevi. Oggi siamo arrivati al 12° grado, nemmeno io l’avrei immaginato. Come succede? Qualcuno ha aperto un piccolo pertugio, poi uno ci riesce, arrivano altro cento atleti, poi centomila… Il margine sarà più stretto ma ci sarà sempre qualcuno che va oltre. 

Qual è la sua montagna, oggi?

Credo che questo aspetto cambi con l’età: io non vedo la stessa montagna che vedevo a sedici anni o a trenta, e poi cambiano anche le montagne: crollano, si modificano. Acune vie che ho aperto sono poi franate. Non ho più la bramosia di essere un giorno in Marmolada e un altro sul Monte Bianco. Non mi manca un ottomila e non è importante non aver potuto scalare certe cime. Le scelte le ho fatte, le ho vissute come mi piacevano. 

Per lei la montagna è stata un luogo di esplorazione interiore?

Sì, ed è stato un modo che forse avrei potuto provare anche sul mare: magari l’avrei fatto. Le montagne sono state una straordinaria esperienza che mi ha permesso di esplorare gli abissi che avevo attorno a me e anche dentro di me: è stata anche un’esperienza dolorosa. Ho perso amici, ho fatto esperienze che arricchiscono e che tolgono, un viaggio che devi avere la fortuna di poter raccontare. Parlo di una sfera molto intima, delicata, se la vivi in quegli ambienti è molto forte. Anche perché ho fatto una scelta personale, scalavo in un modo un po’ lontano dal consueto. Un arrampicatore che mi accompagnava e aveva più di trent’anni mi disse: “senti, lo metti qualche chiodo? Perché se cadi poi ti ricordano per quello”. Ho dato una risposta arrogante, volevo fare questa conoscenza, provare a viverla fino in fondo. 

Come nel titolo del suo libro, eravate immortali?

Pensavamo di essere immortali: abbiamo vissuto profondamente e per una dose di fortuna esagerata lo siamo anche stati. 

Come è stato accolto il suo libro?

Ho avuto buone reazioni, molto calore, mi hanno scritto in tantissimi. Ho voluto scriverlo senza aiuti, e racconto anche di uno spaccato dell’Italia che non c’è più, senza nostalgia, di momenti fagocitati da un progresso esagerato e che fatico a comprendere. È un’Italia cambiata a livello ambientale, alcuni luoghi sono irriconoscibili. Nel bene e nel male, senza ergermi a giudice.

Tornando all’arrampicata interiore, la vetta, la cima, cos’è?

Intanto ad un certo punto mi sono chiesto se valesse la pena arrivare in cima a tutti i costi o piuttosto con una qualità diversa: avevo occhi che non vedevano le falesie, ci camminavo sopra senza vederle. Improvvisamente mi sono accorto che erano dappertutto, ma erano ancora molto lontane. Avevo una visione più alpinistica a quel tempo. E non potrò mai essere così arrogante dal dire: sono tornato a casa perché sono bravo.

comments powered by Disqus