«Oggi per divertirsi si rappa»

di Fabio De Santi

Non ci sono, per noi, pagine migliori di «Costretti a sanguinare» per scoprire la vera anima del punk tricolore. A scriverle, vent’anni fa, quel Marco Philopat che ora ha dato alle stampe per i tipi della Bompiani il libro Pirati dei Navigli che riprende in qualche modo quella narrazione fra musica e controcultura immergendola nella sua città, Milano, segnata dal clima, per molti godereccio, della seconda metà degli anni ‘80.
Le pagine di «Pirati dei Navigli» saranno al centro dell’incontro con l’autore, condotto da Luca Giudici, proposto oggi alle 18 alla Bookique nell’ambito della rassegna «Giorni d’autore» organizzata in collaborazione con la Piccola Libreria di Levico Terme.

Philopat, da quali esigenze nasce «I pirati dei Navigli»?
Vent’anni fa avevo scritto «Costretti a sanguinare» e da allora in molti mi hanno chiesto se ci sarebbe stato un seguito a quelle pagine dedicate all’esperienza di un luogo come il Virus. Quindi in qualche modo, giocando con il titolo del mio vecchio libro, sono stato "costretto a scrivere" e a raccontare un periodo come quello degli anni ‘80 a Milano non molto indagato dalla letteratura italiana specie dal punto di vista dell’underground.

Il periodo della Milano da bere e degli yuppies.
Quella era una parte di Milano ma l’altra vedeva un grande fermento di controcultura, un momento ricco di spunti e di idee come ad esempio quelle legate all’uso dei computer che si concretizzava anche nella rivista Decoder.

«Decoder» fa anche rima con cyberpunk e con uno spirito di rivolta che passava attraverso la tecnologia.Tutto nasceva dall’incontro fra noi punk del centro sociale Virus, poi sgomberato, e gli studenti d’informatica, sociologia e filosofia riuniti in una libreria come la Calusca legata ad una figura unica come quella di Primo Moroni. Dall’unione fra questi elementi e le loro competenze abbiamo creato un microlaboratorio di strada trascinato dallo slogan "do it yourself!" che abbiamo applicato.

Un’era fa dal punto di vista informatico.
Anche di più: avevamo piccoli computer con scanner e modem che erano grandi come un tavolo e impiegavano venti minuti per passare un file di testo da un computer all’altro. Quello che oggi fa sorridere per noi allora era fantascienza pura.

Cosa rimane ora di quell’esperienza?
Abbiamo creato un collettivo che poi è riuscito ad occupare il centro sociale Conchetta 18 che ancor oggi offre un’importante proposta di eventi musicali e culturali. Un luogo che resiste e che negli anni ha visto passare migliaia di musicisti ed artisti. Un luogo che non ha padroni ed è completamente autogestito senza alcun fine di lucro.

Ma nel 2018 si può parlare ancora di controcultura o è un termine anacronistico?
Per quanto riguarda i movimenti d’opposizione al sistema la struttura organizzativa rigida fa a pugni con l’attuale società liquida. Quindi è quasi impossibile creare strutture simili a quelli che avevano i movimenti degli anni ‘70 e ‘80. Oggi la strada è quella di una controcultura più nascosta, ancora più underground di un tempo e capace di lanciare le sue idee legate ad un sogno per un mondo diverso.

Questo vale anche per la musica underground sempre più legata al linguaggio del rap?
Il rap possiede un linguaggio sia mainstream sia alternativo. La forza dell’hip hop è stata quella di intercettare i due cambiamenti antropologici dell’uomo in questo momento: da una parte quello legato alle nuove tecnologia con il taglia e incolla tipico di questo genere accanto al tema della grandi migrazioni. Il rap ha un linguaggio meticcio ed internazionale capace di aggregare tutte le etnie. Nelle città dove una volta i ragazzi di strada giocavano a pallone, cosa che oggi non si può più fare, almeno si divertono a creare rime e si sfogano rappando.

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