L'economia dell'azzardo vale in Italia oltre 80 miliardi di euro all'anno

di Renzo Moser

Un giro d’affari di 84 miliardi di euro all’anno, che, su un totale planetario di quasi 400 miliardi di euro, fa dell’Italia il terzo mercato mondiale; una spesa media annua di 4.000 euro all’anno per ogni famiglia italiana, 400mila «postazioni» a disposizione dei cittadini, con una percentuale di una ogni 150 residenti: se si parlasse di nuove tecnologie o di numeri delle start up innovative, il Belpaese potrebbe tirare un sospiro di sollievo, perché avrebbe risolto una parte rilevante dei propri problemi economici e occupazionali. Il problema è che stiamo parlando di un’economia affatto particolare, quella dell’azzardo. Economia che, come dimostrano questi numeri, vedono l’Italia eccellere nel mondo. Ma non è un’eccellenza di cui andare fieri, anche se porta indubbi vantaggi alle casse dello Stato in termini di gettito fiscale.

L’economia dell’azzardo è stata al centro di uno degli incontri più interessanti di questa quarta giornata del Festival dell’Economia, con i contributi di Marcello Esposito, docente di International Financial Market, dell’antropologa culturale Natasha Dow Schüll e dell’economista Luigi Guiso. Ne è uscito un quadro piuttosto angosciante, non solo per la situazione italiana, ma anche per l’incredibile raffinatezza psicologica e sociologica che i moderni sistemi di gioco hanno raggiunto. Con un unico, eterno obiettivo: spennare il pollo di turno, e farlo facendo sì che il pollo stesso si diverta e apra spontaneamente i cordoni della borsa.

Partiamo dai numeri, che abbiamo già accennato. Il fatturato del gioco d’azzardo nel mondo vale circa 380 miliardi di euro all’anno. Da sola, l’Italia assicura più di 84 miliardi di euro, ha conteggiato Esposito. Metà di questi arrivano dagli incassi delle macchinette, sostanzialmente slot-machine e videopoker. Non male per un paese in cui, come ha ricordato lo stesso Esposito, fino a prova contraria il gioco d’azzardo è ancora illegale. In pratica, si rischiano sanzioni anche pesanti giocando qualche euro a ramino con degli amici, ma si possono tranquillamente spendere 4.000 euro all’anno in lotterie, videolotterie, gratta e vinci, slot e videopoker. Paradossi italiani.  Le slot, lo abbiamo visto, sono la fetta più grossa della torta. In Italia ce ne sono quasi 400.000, in pratica una ogni 150 residenti. Gli Usa ne hanno appena il doppio, pur avendo una popolazione molto più vasta. E’ come se ognuno di noi avesse un casinò a disposizione sotto casa. E non è un caso: è quello che Natasha Dow Schull ha definito il paradigma del «gioco comodo», il tentativo di abbattere qualsiasi ostacolo al gioco, da quelli spazio-temporali a quelli psicologici, e per raggiungere il quale i produttori e gestori di slot non lesinano risorse.

Torniamo alle famiglie e a quei 4.000 euro di spesa media annua, spesa raddoppiata negli anni della crisi. Di questi, ha ricordato Luigi Guiso, circa 3.000 rientrano con le vincite, ma almeno mille se ne vanno in fumo. Mille euro all’anno: cifre simili, per esempio, all’esborso per l’Imi. La differenza è che questa «tassa» molti italiani la pagano spontaneamente, senza protestare e senza battere ciglio. Un sogno per i custodi delle casse statali. E infatti lo «Stato biscazziere» si guarda bene dal cambiare le cose. Non solo cerca di non accendere troppi riflettori sul fenomeno («I monopoli di Stato non forniscono i dati su questo settore», denuncia Luigi Guiso), ma dimostra un’efficienza in altri campi sconosciuta nel garantire un’offerta ricchissima alla domanda di gioco, dimostrandosi per una volta, sono ancora parole di Guiso, «più cinico del mercato».

Fin qui l’Italia. Ma un ulteriore motivo di angoscia lo ha aggiunto Natasha Dow Schüll spiegando che cosa c’è dietro l’universo slot-machine. A partire dall’architettura dei casinò di Las Vegas, costruiti apposta come una trappola per topi per attirare i giocatori. Attirarli dove? Alle slot, che sono il vero core business di questi stabilimenti industriali dell’azzardo, assicurando il 40% dei ricavi dell’azzardo. Perché le slot? Perché sono lo strumento giusto per incastrare il giocatore perfetto, che non è quello che rischia grosso alla ricerca della botta di fortuna, del jackpot di giornata, ma quello che gioca poco e per molto tempo. Lo si tranquillizza e lo si illude con piccole vincite, con il tintinnare dei gettoni e delle monete che scendono dalla macchinetta, e così lo si tiene incollato alla macchina stessa. Studiandone anche il design, la postura, le sedie, l’ergonomia. Non è una questione banale, perché se è vero che si tende sempre, nello studio della ludopatia, a concentrare l’attenzione sulla persona e non sulla macchina, è dall’interazione della prima con la seconda che nasce la dipendenza alla base di quello che oggi possiamo chiamare ludocapitalismo. Le slot creano un gioco solitario, rapido e continuo, senza interferenze esterne. Diventano un prolungamento dell’individuo stesso e il progresso tecnologico ha amplificato tutte queste caratteristiche. Oggi una mano dura 3 secondi e si possono fare fino a 1.200 puntate all’ora, e tutto viene studiato, progettato e costruito per aumentare la produttività del giocatore, dalle schiere di matematici che lavorano agli algoritmi di gioco ai designer che progettano le sedie migliori per tenere i giocatori inchiodati alle macchinette per ore. Il profitto delle slot deriva dal volume, non dal prezzo. Inquietante, no?

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