Oriente-Occidente e la Cina: ce ne parla Giorgio Cuscito fra Covid, mercato e Hong Kong

Quali saranno le conseguenze della frenata economica innescata dal Covid – 19 sulla Cina? È uno degli interrogativi ai quali cercherà di rispondere Giorgio Cuscito, analista, studioso di geopolitica cinese e dell’Estremo Oriente, consigliere redazionale di «Limes», la Rivista italiana di geopolitica, nell’incontro di oggi, alle 17.30 ad ingresso libero con prenotazione, nella Sala Conferenze del Mart per Oriente Occidente Dance Festival. «La Cina di Xi alla prova del coronavirus», questo il titolo della conferenza, sarà l’occasione per scoprire le sfide politiche che sta affrontando Xi Jinping sul fronte interno e quelle, ancor più delicate, su quello internazionale.

Cuscito, in quale modo è stata gestita in Cina l’emergenza sanitaria legata al Covid - 19?
«È stata gestita sotto una stretta supervisione del governo con misure di controllo e prevenzione rigide, ma non si può dire che sia stata del tutto risolta. Le misure restrittive adottate hanno indotto la popolazione a modificare stile di vita e comportamento. Inoltre, queste misure hanno richiesto l’implementazione di tecnologie già utilizzate per monitorare e prevenire il contagio. Dopo il picco invernale, sono sorti altri focolai che il governo è riuscito a contenere ma in ogni caso, come in Italia, la questione non può considerarsi archiviata».

Ma per lei, alla luce dei decessi in tutto il pianeta, è plausibile la cifra ufficiale di quelli, poco più di quattromila, registrati in Cina?
«Nessun Paese ama mostrare la propria vulnerabilità al resto del mondo annunciando un elevato numero dei contagi e dei decessi. Probabilmente le cifre pubblicate dal Governo cinese si avvicinano a cifre reali ma bisogna tenere conto, oltre al fattore vulnerabilità precedentemente citato, anche il fatto della difficoltà di calcolo del numero esatto di contagi, specialmente nelle aree più povere del paese».

In quale modo la frenata economica pesa sulla Repubblica Popolare anche aumentando il divario fra la Cina rurale e quella delle grandi città?
«La contrazione economica in Cina si è già fatta sentire. Riprenderà a crescere, ma già prima del Covid-19 il Paese stava subendo un rallentamento dovuto a una fase di transizione per via della riforma che il Governo vuole attuare nel sistema economico. Questa riforma consiste nel puntare al rafforzamento della domanda interna e alla sua prevalenza sulle esportazioni, per tutelare la vulnerabilità soprattutto nei confronti degli Usa. Perché questo si realizzi c’è bisogno di un aumento dei consumi e, di conseguenza, di una spinta al processo di urbanizzazione, dato che i consumi nelle aree più povere sono quantitativamente inferiori. L’obiettivo è quindi quello di ricercare un’indipendenza dalle oscillazioni dei mercati stranieri».

La sfida interna di Xi Jinping era quella di eliminare la povertà dalle aree rurali entro il 2020: ci sta riuscendo?
«In termini propriamente numerici sì. La Cina sta elevando al di sopra della soglia della povertà quasi la totalità della popolazione. Questo risultato non tiene però conto della situazione di vita delle persone che si trovano appena al di sopra di questa soglia che è molto bassa in termini di reddito annuale. Quindi c’è stata una crescita, ma permangono estese situazioni di povertà nonostante a livello statistico solo una piccola porzione della popolazione risulti al di sotto della soglia di povertà. Garantire il benessere a tutto il Paese è importante per preservare la stabilità sociale e il potere del Partito Comunista agli occhi della popolazione».

Sul fronte esterno come valuta le scelte fatte riguardo ad Hong Kong?
«L’irrigidimento di Pechino verso Hong Kong, con l’adozione di misure che ne limitano la libertà, dipendono dalla vulnerabilità percepita del governo cinese in questa parte del Paese: l’obiettivo è quello di limitare le proteste, spegnendo le velleità democratiche per il timore che la situazione potrebbe essere sfruttata dagli Stati Uniti. Questa tattica si ripercuote su due fattori. L’immagine della Repubblica Popolare all’estero, visto che agli occhi occidentali questo è considerato come una violazione della tutela dei diritti umani e, in secondo luogo, il rapporto con Taiwan. Da tempo Pechino propone a Taiwan la riunificazione sul modello un Paese-due sistemi (quello in vigore ad Hong Kong), ma Taiwan non è interessata ad accettare la riunificazione pacifica perché significherebbe rinunciare alla libertà e all’indipendenza raggiunta nel corso di questi anni. Pechino è posto quindi di fronte a un dilemma, ovvero quello della conquista con o senza forza di Taiwan: c’è una parte del Paese che vorrebbe utilizzare la forza, ma questo non è al momento possibile perché l’intervento cinese innescherebbe il coinvolgimento degli Stati Uniti con il rischio di conflitto nel Mar Cinese Meridionale».

C’è chi teme un Dragone sempre più aggressivo sia verso Taiwan che altre nazioni asiatiche, non ultima l’India come accaduto di recente per il Kashmir.
«Ci troviamo in una fase in cui l’ascesa della Cina dal punto di vista economico e militare è sentita come una minaccia dagli Stati Uniti, ma anche dalle potenze regionali dell’estremo oriente come Giappone e India che temono l’espansione della Repubblica Popolare. Ne sono un esempio le tensioni con l’India lungo la catena dell’Himalaya, ma oltre agli sconfinamenti cinesi, l’India teme anche la crescente attività economica della Cina in Pakistan, Buthan Nepal e Sri Lanka, tutti Paesi che si trovano alla periferia dell’India. Ciò costituisce un pericolo per gli interessi indiani, mentre per la Cina è un obiettivo tattico di ampliare le proprietà navali verso Occidente. Anche per questo Australia, India e Giappone danno appoggio agli Stati Uniti criticando la Cina su tutti i temi più caldi tramite il Dialogo Quadrilaterale di Sicurezza».
Come vede invece i rapporti futuri con gli Stati Uniti nelle due varianti: con o senza la rielezione di Trump?
«Non penso che le elezioni intaccheranno il duello tra Cina e Stati Uniti perché la Cina continua ad essere percepita come una minaccia. Non bisogna inoltre sottovalutare il ruolo del presidente Usa, perché la strategia americana dipende dall’interazione tra Governo e lo Stato profondo americano (Pentagono, intelligence, Casa Bianca), ed essi percepiscono nella Cina una minaccia che deve essere contenuta, anche dopo le elezioni presidenziali».
Tornando al Covid secondo lei è stata una mossa fortunata quella che è stata battezzata “Via della seta della salute”, inviando personale medico, mascherine e respiratori a 90 paesi, tra cui anche l’Italia?
«“Via della seta della salute” era un termine già usato in passato dalla Cina per indicare la volontà di collaborare offrendo un supporto sanitario all’estero. L’epidemia di coronavirus ha indotto la Cina a offrire il suo aiuto ad altri Paesi e da qui il recupero del termine. Questa operazione è servita alla Cina a rimediare, almeno nell’ottica collettiva, al fatto che la pandemia si sia sviluppata a partire dalla Repubblica Popolare. Tutto ciò ha rafforzato il soft power cinese in Italia. Alcuni sondaggi indicano che la popolazione italiana durante l’emergenza sanitaria percepiva la Cina come partner più che gli Stati Uniti. È vero però anche che oggi la Cina in Europa deve fare i conti con un’immagine che si è deteriorata sotto diversi aspetti, come ad esempio quello dei diritti umani».

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