«Numero Zero», a Sanbàpolis il racconto del rap italiano

di Fabio De Santi

Neffa, Fabri Fibra, J-Ax, Dee'mo, Frankie Hi-NRG, The Next One, Kaos, Colle Der Fomento e Fritz Da Cat. Sono loro alcuni nomi di punta della scena rap italiana raccontati da "Numero Zero. Alle origini del rap italiano" che domani, giovedì, al Teatro Sanbapolis di Trento aprirà la rassegna cinematografica «Volume!» organizzata dal centro Santa Chiara, curata da Sergio Fant. Di «Numero Zero» il documentario di Enrico Bisi, prodotto da Withstand in associazione con Zenit Arti Audiovisive e distribuito da Wanted Cinema abbiamo parlato con il regista.
Enrico, perché la pellicola?
«L'idea era di dare forma ad una storia bella e importante che ha coinvolto ed appassionato almeno due generazioni. Volevo stabilire dei punti fermi che finora erano assodati soltanto per gli appassionati di rap ma sconosciuti per tutti gli altri.»
Cosa hai voluto raccontare?
«Il film ripercorre la storia del rap in italiano partendo dalla sua nascita, passando attraverso la sua maturazione artistica e commerciale fino ad arrivare a cavallo del secolo, periodo nel quale si è vissuto un periodo di buio e forse la fine di un certo modo di intendere il rap».
Quali sono le cose che hai «scoperto»?
«Conoscevo già l'argomento, quello che mi ha stupito è la quantità di persone che ascolta e segue il rap e la cultura hip hop. Moltissimi giovani nati negli anni '90 mi hanno detto di essere cresciuti con quella musica. Questa è stata la vera scoperta credo, perché è la legittimazione artistica di un movimento. Sopravvivere, durare nel tempo».
Nel film ci sono diverse testimonianze. Le più significative?
«La forza di queste testimonianze sta nel fatto di essere molto eterogenee tra loro. Artisti che hanno affrontato la propria carriera in maniera quasi opposta raccontano le proprie vite una accanto all'altra. L'aspetto significativo credo stia proprio nell'unione di questi elementi, quasi sempre visti come inaccostabili. Mettere insieme J-Ax e Kaos per molti è un sacrilegio. Per me è ricchezza, al di là dei gusti personali. Se proprio devo fare un nome però direi Neffa. Non rilasciava un'intervista video sull'hip hop dagli anni '90. Non ne aveva mai più voluto parlare. Erano in tanti che aspettavano?»
Come si è evoluto o involuto il rap tricolore?
«Tecnicamente è sicuramente migliorato, ma probabilmente ha perso un po' nei contenuti e nella varietà di stili».
Cosa c'è del rap militante quello dell'Onda Rossa Posse o degli Assalti Frontali o anche di Frankie nel tuo film?
«I nomi che hai citato fanno parte dell'affresco che ho cercato di rappresentare. Sono voci importanti all'interno di un racconto polifonico. Gli Onda Rossa Posse hanno stampato il primo vinile di rap in italiano e questo non glielo toglierà mai nessuno. Frankie è stato importantissimo per lo sviluppo del rap in quegli anni. È la dimostrazione che creare della musica che rispecchi il proprio essere, il proprio modo di vedere le cose è molto importante. La sua scrittura era unica. È così che nascono le alternative. Una delle regole non scritte degli anni '90 era "non copiare"».
C'è chi dice che i rapper sono i cantautori del terzo millennio.
«Non credo. I cantautori continueranno ad esserci e a fare i cantautori. Credo che l'unico punto di contatto stia nel fatto che sia i cantautori che i rapper scrivano e interpretino i propri testi».
Come mai hai scelto Ensi per il ruolo di narratore?
«Ho sempre pensato potesse essere l'unico a doverlo e poterlo fare. Ensi è cresciuto ascoltando quella musica pur essendo troppo giovane per viverla direttamente. È il veicolo ideale. È un grande Mc che oggi ha un contratto con una major ma che è amato e apprezzato dalla scena hip hop underground. È un artista che conosce le origini di questo fenomeno, che si è fatto le ossa nelle jam e nelle battle di freestyle battendo praticamente tutti. E poi vabè, ha una gran voce!».

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