Tribunale / La sentenza

Rubò il portafoglio di un uomo 17 anni fa, le negano la cittadinanza italiana

La donna ebbe un rapporto occasionale nel bagno pubblico di un locale e, in quel frangente, avrebbe fatto sparire i soldi del partner appena conosciuto. Per questo è stata valutata persona dalla condotta «inaffidabile» e si è vista rigettare la domanda a causa di «pregiudizi di carattere penale»

IL CASO Negata la cittadinanza italiana: "Guadagna troppo poco" 
DATI Quasi 50 mila gli stranieri residenti in Trentino
IRPEF 300milioni di euro dagli stranieri 
FISCO Ripresa post-Covid, record di contribuenti immigrati nel 2022

di Marica Vigano'

TRENTO. Per un rapporto occasionale, avvenuto nel bagno di un locale pubblico 17 anni fa, rischia di non ottenere la cittadinanza italiana. La donna, che in quel frangente avrebbe fatto sparire il portafogli del partner appena conosciuto, è stata valutata «inaffidabile»: si è vista rigettare la domanda a causa di «pregiudizi di carattere penale» ed in merito ad una condotta che - secondo il ministero dell'Interno - sarebbe «indice di inaffidabilità e di una non compiuta integrazione nella comunità nazionale».

Vero è che all'indomani di quell'episodio era stata accusata di furto con destrezza in concorso. Come la questura di Trento aveva indicato in una nota al Ministero, era stata segnalata all'autorità giudiziaria per aver sottratto il portafogli dell'uomo con cui si era appartata assieme ad una complice. Il reato risale al 2006, ma non si conosce l'esito del procedimento. La denuncia potrebbe essere stata ritirata: la donna, nel ricorso presentato al Tar contro il rigetto della sua richiesta per ottenere la cittadinanza, ha infatti depositato un documento che in data 19 novembre 2022 certificava l'assenza di carichi pendenti.

È da ben 9 anni che la ricorrente, sposata con cittadino italiano e madre di tre bambini tutti con cittadinanza italiana, attende di ottenere il nuovo status. La domanda era stata presentata nel 2014. All'epoca era da almeno dieci anni che risiedeva nel nostro Paese. Nel 2018 il ministero dell'Interno le ha comunicato il rigetto della richiesta. La donna non si è arresa e ha presentato ricorso al Tar del Lazio per l'annullamento del decreto evidenziando, fra gli altri punti portati all'attenzione dei magistrati amministrativi, di aver dato prova di volersi inserire in maniera duratura nella comunità italiana, a partire dal matrimonio e dalla decisione di far nascere i propri figli in Italia.

Riguardo alla denuncia per furto, sostiene che l'amministrazione non avrebbe svolto i dovuti accertamenti sull'esito della denuncia, dato che non ci sarebbe stato alcun seguito penale. Con sentenza depositata nei giorni scorsi i magistrati amministrativi hanno accolto il ricorso e disposto che venga riesaminata la richiesta di cittadinanza presentata dalla donna, questa volta però «sulla base di una istruttoria completa», fermo restando che spetta sempre all'amministrazione la valutazione sul possesso o meno dei requisiti «per l'inserimento del richiedente in modo duraturo nella comunità».

Nella sentenza i magistrati amministrativi evidenziano le mancanze istruttorie contenute nel decreto ministeriale; in particolare non sarebbero state esplicitate «le concrete ragioni di interesse pubblico ritenute comunque ostative alla concessione della cittadinanza italiana». Nel provvedimento - specifica il Tar - non sarebbero stati né menzionati né considerati alcuni elementi presentati dalla donna e ribaditi nel ricorso «con i quali, fra l'altro, si faceva presente che ella lavorava come addetta alla pulizie di un hotel di lusso sin dal periodo del reato addebitatole, senza mai essere incorsa in alcun episodio di furto».

Inoltre «si afferma, in modo del tutto contraddittorio (come, per altro, la ricorrente non ha mancato di rilevare), che la valutazione di "inaffidabilità" è derivata da un non meglio definito "complesso di situazioni e comportamenti" che si sono rivelati "idonei a fondare l'opportunità della concessione del nuovo status civitatis"». Le motivazioni dell'amministrazione sono dunque da rivedere. Il decreto è stato annullato e il ministero dell'Interno condannato al pagamento delle spese processuali, pari a 1.500 euro.

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