Europa / Intervista

Ragazza trentina con i migranti nell'inferno delle "jungle" francesi: «Troppa disinformazione e ignoranza su questi temi»

Elena Barbiero, venticinquenne di Riva del Garda, ha scelto di vivere tre mesi al fianco dell'associazione Utopia56 a Calais, dove i migranti tentano di attraversare il Canale della Manica e raggiungere l'Inghilterra con una traversata "vietata" e pericolosa. Anche a Briançon, al confine con l'Italia, dove la Francia respinge i migranti, è stata testimone delle tensioni tra la polizia transalpina e le associazioni umanitarie

di Elena Piva

RIVA. Mentre l'attenzione dell'opinione pubblica muta al variare del vento, alcune persone restano vigili sulle circostanze contro cui parte dell'umanità si trova a combattere. Per comprendere l'apporto dei suoi studi nella realtà quotidiana Elena Barbiero, venticinquenne di Riva del Garda, ha scelto di viver tre mesi al fianco dell'associazione «Utopia56» a Calais, città della Francia settentrionale dove i migranti tentano di attraversare il Canale della Manica e raggiungere l'Inghilterra.

La decisione è avvenuta dopo il conseguimento della laurea triennale in Lingue orientali all'università di Bologna. Prima di avviare il master in Diritto e politiche delle migrazioni che frequenta ora all'università di Trento, si è stabilita due settimane a Briançon, zona montana al confine con l'Italia ad alto rischio di respingimenti da parte della polizia francese e un successivo mese e mezzo nel nord della Grecia, con una Ong americana in una struttura dedicata ad attività ricreative ed educative, limitrofa a due campi profughi dell'Unione europea.

Per anni, a Bologna quanto a Trento, ha affiancato collettivi e associazioni che si occupano di persone vulnerabili. All'inizio del 2022 ha scelto di verificare in prima persona l'impatto che le aree di frontiera hanno nella vita di chi fugge dal proprio Paese.

Quali sono state le tue prime sensazioni?

«Ho sempre provato un mix di emozioni: sono prevalse rabbia, indignazione e un senso di impotenza di fronte alle condizioni disumane di uomini, donne e minori spesso non accompagnati. Sono stata fortunata ad aver incontrato colleghi, amici e compagni che, con consapevolezza e coraggio, fanno la differenza in una città infernale. I luoghi di vita informali dove i migranti vivono sono soprannominati jungle, termine inglese da loro attribuito e derivante dal persiano jangal, foresta. Descrive la tendenza di cercare riparo in zone boschive, ai margini della città».

Come si opera in un territorio di passaggio, dove speranza e dolore si scontrano con le leggi?

«La grande risorsa di Calais è la fitta rete di associazioni che collaborano tra di loro per restituire dignità alle persone. C'è chi taglia e distribuisce la legna per far sì che possano scaldarsi e cucinare in autonomia, chi prepara e distribuisce cibo, chi mette a disposizione elettricità per ricaricare i cellulari. L'associazione "Utopia56" fa un lavoro delicatissimo, complesso da spiegare. Mediante un centralino telefonico mobile accoglie ad ogni ora, tutti i giorni, chiamate per ogni tipo di necessità ed emergenza: le telefonate standard di chi è appena arrivato e ha bisogno di informazioni, beni quali pasti caldi e un riparo per la notte, ma anche le più difficili e urgenti come persone feritesi dopo essersi aggrappate a camion in corsa o, peggio, in procinto di affondare per problemi d'imbarcazione, lo stesso accade al largo delle coste italiane. In casi simili, il nostro compito era metterle in contatto con la guardia costiera oppure con le ambulanze. "Utopia56" lavora anche sulla prevenzione dei rischi, si accerta che le persone abbiano il maggior numero di informazioni utili prima di partire».

Ti sei mai sentita spaesata, tanto da chiederti se ritornare a casa?

«Ci sono stati momenti molto tosti ed episodi tragici ma no, non ho mai pensato di tornare prima, anzi ho prolungato la permanenza da uno a tre mesi. La realtà di Calais è molto sfaccettata e oltre a dare il mio contribuito da volontaria e attivista volevo capire le assurdità e le contraddizioni che vi hanno luogo, come nelle vicine Dunkerque e Grand-Synthe. I migranti vi arrivano con l'obiettivo di raggiungere l'Inghilterra. Essendo però senza documenti, quindi in una condizione di irregolarità, hanno solo due modi per tentare la traversata: nascondersi dentro, sopra o sotto i camion che attraversano l'Eurotunnel e arrivano a Folkestone oppure via mare, con imbarcazioni tendenzialmente molto precarie».

Hai notato delle differenze a Briançon?

«Sì, ci vorrebbe un'altra intervista per parlarne a sufficienza. Nonostante siano due luoghi con caratteristiche ambientali agli antipodi, li accomuna le avversità tipiche della frontiera».

Qual è il rapporto tra volontari, migranti e polizia?

«Le relazioni tra attivisti e polizia sono tese, è arduo rimanere impassibili di fronte alla violenza ingiustificata ai danni dei migranti. I respingimenti sono frequenti, con modalità efferate che spingono le persone a ulteriori rischi come fughe pericolose che causano tragiche morti. Trovo inaccettabile il modus operandi della polizia di frontiera francese».

Quanto pesa il pregiudizio sulle spalle di chi sogna di vivere una vita definibile tale?

«Tanto, troppo. C'è tanta disinformazione e ignoranza in materia di immigrazione, un fenomeno intricato dalle radici lontane di cui dimentichiamo parte delle cause: le conseguenze dell'operato delle potenze coloniali prima e delle politiche scellerate dei paesi occidentali poi».

Pensi che le nuove generazioni siano più sensibili a ciò che accade lungo gli invisibili confini?

«Non lo so, me lo auguro anche se sono scettica. Le persone che si spendono per questa causa ci sono e c'erano in passato, ma credo si tratti di una piccola fetta di popolazione e non so quanto il dato anagrafico abbia impatto».

Vorresti dire qualcosa a chi fa, della propria indifferenza, un baluardo per l'esistenza?

«Non ho la presunzione di insegnare niente a nessuno, ognuno agisce come meglio crede. Il mio auspicio è che le persone approfondiscano di più, prima di parlare di migrazioni. Io stessa, pur studiando queste tematiche, mi accorgo ogni giorno di quanto siano complesse. In Italia i migranti sono un problema dal momento in cui decidiamo di non occuparcene, tagliando i fondi per l'accoglienza e finanziando le milizie libiche o la Turchia di Erdogan per trattenere le persone in movimento. Non basta chiudere i porti né riempire i confini di polizia per impedire le partenze e gli arrivi: quando hai già perso tutto sei disposto a giocarti l'unica cosa che ti rimane, la tua vita, pur di darti un'ultima chance».

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