Salute / Il caso

Quel dolore delle donne che la sanità non sa riconoscere: vulvodinia ed endometriosi, un problema anche in Trentino

Una su sette – sarebbero 9 mila nella nostra provincia – soffre e deve affidarsi a cure private molto costose. Ma qualcosa si muove: la storia di Mariafrancesca, che ci mette la faccia anche su Instagram

di Matteo Lunelli

TRENTO. Malattie diffuse, invalidanti e croniche. Ma invisibili: perché se ne parla poco, perché sono spesso sminuite, perché il diritto alle cure non è riconosciuto, perché riguardano organi e zone del corpo che sono ancora tabù. Per questi motivi parlarne e fare informazione è fondamentale. E se il primo passo della battaglia di sensibilizzazione viene fatto grazie alla notorietà di una giovane modella e influencer, nonché fidanzata di Damiano dei Maneskin, ovvero Giorgia Soleri, ben venga.

Stiamo parlando, per entrare nello specifico di vulvodinia, neuropatia del pudendo, endometriosi e adenomiosi. Malattie diverse ma tutte "complicate", da spiegare, da diagnosticare e da curare. Ma non certo rare. Si stima, grazie ad alcuni studi scientifici, che in Italia la vulvodinia colpisca una donna su sette e l'endometriosi una su dieci.

In Trentino non esistono numeri ufficiali, anche perché queste malattie non sono ancora riconosciute nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) dal Servizio Sanitario Nazionale, ma considerando che la vulvodinia colpisce donne prevalentemente in età fertile, indicativamente tra i 18 e i 40 anni e che queste in provincia sono 62 mila, possiamo stimare che le trentine alle prese con questa malattia siano circa 9 mila. Una su sette, appunto.

A spiegare meglio la situazione, generale e locale, è Cecilia Bighelli. «Il Comitato si è costituito a livello nazionale nell'estate 2021. Non abbiamo ancora presidi sul territorio, ma abbiamo già messo in campo anche in Trentino delle iniziative si sensibilizzazione. Il gruppo sta crescendo e nei giorni scorsi c'è stato un passo importante a livello politico, con i consiglieri Paolo Zanella, Paola Demagri e Luca Zeni che hanno presentato una mozione per noi fondamentale che è stata scritta insieme al Comitato e ad associazioni che si occupano di endometriosi».

Riassumendo e citando Paolo Zanella, si chiede alla Provincia «di riconoscere una serie di patologie croniche e invalidanti. A riguardo sono stati depositati in Parlamento tre disegni di legge e sono state approvate tre mozioni in Veneto, Piemonte e Lazio e ne sono state depositate altre nove in altrettante regioni. La mancata inclusione di queste patologie nei LEA comporta che le cure e le terapie siano ad oggi interamente a carico delle pazienti e si stima che una persona affetta da una di queste malattie croniche spenda più di 20.000 euro durante l'intero percorso di cura e che tali spese siano spesso insostenibili, costringendo molte persone a rinunciare alle cure. La mancanza di conoscenza ed informazioni adeguate, purtroppo anche in ambito sanitario, comporta un ritardo diagnostico considerevole ed un aggravio individuale e collettivo a livello psicologico, sociale ed economico. In particolare si chiede alla Giunta di inserire queste malattie nell'elenco di quelle croniche e invalidanti, come assistenza integrativa provinciale extra LEA, di avviare un accrescimento delle competenze di tutte le figure sanitarie che possono incontrare persone affette da queste patologie, di individuare almeno un presidio sanitario pubblico provinciale di riferimento per il dolore pelvico, di istituire dei registri provinciali e di promuovere campagne di informazione e di sensibilizzazione».

Per entrare più nel dettaglio torniamo da Cecilia Bighelli: «Uno dei problemi cruciali è la mancanza di conoscenza da parte della stessa classe medica. Perché? È una questione di formazione, sono malattie che non vengono insegnate. E c'è anche una componente di normalizzazione del dolore femminile: il pensiero comune è che sia normale un po' di male durante le mestruazioni o durante un rapporto. Tutto questo provoca un ritardo diagnostico, quantificabile in 4 anni e mezzo mediamente per la vulvodinia e 7-9 per l'endometriosi. Stiamo lavorando facendo informazione e creando delle "liste" di medici ai quali rivolgersi. Poi c'è il tema delle spese, che sono totalmente a carico dei pazienti. Fortunatamente si è creato molto attivismo intorno a questi temi, con tante persone giovani coinvolte, per le quali non è più tabù parlare di dolori e problemi legati alla sessualità e agli organi riproduttivi. In tal senso ci sono anche degli aspetti psicologici: il mancato riconoscimento di sintomi e dolori, da parte dei medici e da parte di chi ci sta vicino, come amici o parenti, è un problema. Così come lo sminuire e non prendere sul serio queste malattie. Che non sono di serie B. Speriamo che qualcosa si muova, un primo passo importante sarebbe che la mozione in consiglio passasse». 

La testimonianza

Coraggio e consapevolezza. Competenze (acquisite sul campo, negli anni) e obiettivi chiari. Mariafrancesca, trentina, 31 anni, dottoranda in pedagogia, ha tutte queste caratteristiche. E grazie a queste accetta di raccontare la propria storia. Dai dolori alla diagnosi, dal tracollo all'operazione, fino ad oggi, con una pagina Instagram (@endo_andme) per informare e sensibilizzare.

«Da adolescente avevo dei dolori, ma nulla di troppo grave. Poi, intorno ai 25 anni, sono aumentati, diventando cronici. Oltre al male in zona pelvica sono arrivate anche una febbre costante e dolore neuropatico intenso agli arti inferiori. Andavo dai medici, ma mi dicevano che ero ansiosa e di andare in bicicletta. Ho fatto praticamente il giro di tutti i reparti del Santa Chiara, ma alla fine sono dovuta andare fuori provincia ed è arrivata la diagnosi: endometriosi. Ma dal tracollo sono trascorsi più di 3 anni. Tre anni all'insegna di tante domande e nessuna risposta, e di spese in aumento. Con la vita stravolta senza sapere il perché». Il suo primo consiglio è quello di rivolgersi a medici e centri specializzati.

In Trentino non ci sono, ma in Italia sì. «Per l'endometriosi sono andata a Negrar, mentre per la vulvodinia mi sono rivolta a un centro a Bergamo. A Negrar sono stata operata tre anni fa: non si è risolto tutto, ma di sicuro l'intervento ha aiutato a ridurre il dolore ed evitare danni maggiori di quello che ci sono stati. Poi, come in ogni malattia, ci sono aspetti soggettivi: c'è chi si riprende velocemente e del tutto, chi meno. In questo senso va detto che una cura non esiste: è un falso mito, perché parliamo di una malattia cronica, le cui terapie - ormonali, con la pillola - permettono più che altro di agire sui sintomi».

Dopo l'intervento chirurgico la ripresa è stata lunga, ma Mariafrancesca non ha mollato. E, anzi, ha voluto metterci la faccia per tante altre persone. «Ho potuto parlare dei miei problemi in famiglia e con gli amici, non mi sono mai vergognata, non ho vissuto come un tabù la sofferenza e ho potuto affrontare le ingenti spese mediche dell'operazione. Altre persone non hanno questa fortuna e convivono con il dolore. Ma, attenzione: il dolore non è mai normale, non deve esserlo mai. Anche per questi motivi ho aperto una pagina Instagram: non ho tanti follower (comunque sono tremila, non male ndr), ma molti mi scrivono e condividono esperienze, dicendo di non sentirsi più soli dopo aver letto i miei post e si sentono capiti nella loro sofferenza. È importante che se ne parli: dai pagamenti delle cure alle tutele sul lavoro fino a una corretta informazione sulla malattia, sulla quale circolano ancora tanti falsi miti, ci sono molti obiettivi da raggiungere». E lei ne parla. Con coraggio, perché una testimonianza può essere d'aiuto per tante persone.

comments powered by Disqus