Emergenza medici di base: con il covid si lavora 12 ore al giorno. «Ma più che altro ci serve personale sanitario di supporto»

di Chiara Zomer

Non serviva il Covid per capirlo, ma la pandemia ha acceso la luce sul problema: i medici di medicina generale hanno bisogno di aiuto. Che poi vuol dire un’organizzazione capace di sostenerli. A dirlo è stato l’altro giorno uno di loro, Maurizio Zeni, che sul sito dell’Adige invocava le ormai famose (ma solo sulla carta) aggregazioni funzionali territoriali.

A ribadirlo ora sono altri professionisti, concordi su un fatto: lavorare 12 ore al giorno facendo slalom tra compiti tradizionali e nuove responsabilità, non permette di dare un servizio adeguato al territorio. Di sicuro non rende la professione appetibile ai giovani. Il che causa una voragine, dove dovrebbe esserci invece un ordinato ricambio generazionale.

Qualche esempio? A Pinzolo stanno ancora aspettando un medico di base; in Vallagarina si sta immaginando una soluzione ponte per i 2.500 pazienti già ora senza medico, mentre a giorni altri 2 professionisti andranno in pensione. Al bando di novembre per 29 sedi vacanti hanno risposto e sono stati inseriti 20 dottori. Gli altri posti saranno rimessi a bando da qui a un mese.

La risposta, ripetono tutti, sono appunto le Aft.

Per le quali si è in fase di trattativa sindacale, e Covid ha rallentato un po’ tutto. «Non vediamo l’ora che nascano le aggregazioni funzionali territoriali, laddove è possibile - spiega il presidente dei medici trentini Marco Ioppi - perché le criticità già c’erano, Covid le ha aumentate, aumentando i carichi di lavoro. Eppure i medici di base sono l’anello più importante della catena e proprio Covid ce l’ha ricordato».

Ma la logistica deve fare i conti con l’orografia: in città è una cosa, nelle valli tutto un altro film. «Io sono uno di quelli che ci ha provato, con le aggregazioni, a Trento sud - osserva il dottor Matteo Giuliani, facendo riferimento al progetto diventato, dopo una vertenza sindacale aspra, un centro di medicina di gruppo. «Ma una cosa dev’essere chiara: il medico di famiglia così come lo abbiamo conosciuto finora, che lavori da solo o in gruppo, non potrà esistere in futuro. Lo vediamo già ora: ci sono sedi scoperte persino in alcune città, i medici preferiscono fare altri lavori. Se vogliamo permettere ai medici di base di operare, dobbiamo affiancarli con personale che li aiuti, infermieristico e di segreteria. Non chiediamo soldi, ma supporto. E non si possono obbligare i medici a riunirsi, perché per esempio nelle valli è più opportuno che si spostino sul territorio, anziché concentrarsi in un centro unico. Ma anche un medico che opera da solo ha bisogno del supporto di personale».

Senza quello, spiega, il carico di lavoro è insostenibile: «In queste settimane abbiamo 100 contatti al giorno. Alcuni solo al telefono, altri hanno bisogno di una visita. Servirebbero 12 ore per le visite a domicilio e 12 ore l’ambulatorio. Impossibile».
Nel progetto delle aggregazioni, in effetti, si vede una via d’uscita proprio per l’idea del medico coadiuvato da personale infermieristico. Un progetto su cui politica e categoria medica sembrano d’accordo.

Il Covid ha rallentato l’esecuzione, ma non l’ha fermata. Per lo meno così assicura Nicola Paoli, segretario provinciale Cisl medici, e membro della segreteria nazionale. «Le aggregazioni funzionali non sono tramontate. Solo, bisogna capire cosa intendiamo - osserva - A livello nazionale stiamo concludendo il contratto, e le Aft sono state inserite.

Quanto al territorio provinciale, con l’assessorato e l’azienda sanitaria stiamo trattando, mi sembra che abbiano recepito le nostre richieste. Le aggregazioni non partiranno più da un luogo fisico. Ogni medico potrà stare nel suo ambulatorio, ma non sarà più isolato, sarà messo in rete. E i pazienti potranno passare da un medico all’altro. Se si andrà in questa direzione, con noi troveranno un portone spalancato. Ma il punto fondamentale su cui dovremo discutere è se ci sono risorse per quanto riguarda il personale da affiancare ai medici. Perché da soli non stano dietro a tutto quel che c’è da fare: abbiamo fino a 60 chiamate al giorno, c’è la campagna vaccinale, ci sono i tamponi, gli screening di prevenzione. Ci vuole personale infermieristico e servono risorse. Attualmente la Provincia paga solo un terzo del costo».

Ma non basta, osservano i medici, per chi sceglie di stare in autonomia. Serve guardare oltre l’emergenza Covid, e trovare risorse e soluzioni di sistema.

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