Picchiata e incarcerata, senza motivo Violenza in Spagna Il dramma di Atika

di Matteo Lunelli

Atika Chafei è una donna forte. Lo dicono i suoi occhi, anche quando si riempiono di lacrime mentre racconta quello che le è successo. Atika Chafei è una mamma che ama alla follia i suoi tre bambini. Lo dicono i suoi occhi, che si illuminano ogni volta che li nomina. Atika Chafei è una persona che ha vissuto sulla propria pelle la violenza. Lo dicono i suoi occhi, con uno sguardo spaventato ma che cerca giustizia.
Questa donna, mamma, persona ha vissuto la scorsa estate un'esperienza drammatica: picchiata, messa in carcere, privata dei suoi diritti umani, umiliata, allontanata dai propri bambini. Si era recata a Ceuta, enclave spagnola in Marocco, per comprare i prodotti senza glutine al figlio celiaco. Non avrebbe mai potuto immaginare quello che le sarebbe accaduto. «Quel 13 luglio mi ha cambiata per sempre».
Atika ha 44 anni, è nata a Rabat e vive a Trento dal 1995: «Ero venuta perché ci viveva mia sorella. Poi ho conosciuto qui l'uomo che sarebbe diventato mio marito e abbiamo avuto tre figli, tutti nati a Trento: Mahmoud ha 12 anni, Safà 7 e Sami quasi tre. Lavoriamo, i bimbi vanno all'asilo e a scuola, viviamo una vita serena».

Quest'estate decidono di andare in Marocco, al mare. «Uno dei motivi principali del viaggio era il sole: il pediatra ci ha consigliato la vitamina D per curare la celiachia. Purtroppo, però, in Marocco non riuscivo a trovare i prodotti senza glutine, così dovevo recarmi a Ceuta, dove i negozi erano più forniti». La situazione in quella cittadina spagnola in territorio africano non è facile: Ceuta, insieme a Melilla, è tristemente famosa per i problemi legati all'immigrazione che vanno avanti ormai da anni. In entrambe le città sono state costruite delle barriere di separazione di filo spinato, finanziate dall'Unione Europea e costate trenta milioni di euro. Mura che non hanno impedito le tragedie, visto che sono decine le persone morte in quell'area.

Il 13 luglio Atika e la suocera di 83 anni attraversano la dogana, passaporto italiano alla mano: devono recarsi in centro per un motivo banalissimo, ovvero fare la spesa. «Siccome mia suocera era un po' stanca, si è seduta su una panchina vicino a un negozio. Io mi sono allontanata di qualche metro per andare a comprare altri prodotti. E a quel punto è iniziata la giornata più drammatica della mia vita. Ho visto delle donne sedute in una piazza con in mezzo un poliziotto, era enorme, sarà stato alto due metri. Io passavo e mi si è avvicinato, dandomi un calcio. Gli ho urlato «Come si permette?» e lui ha estratto il manganello. Mi ha colpita e poi mi ha legato le mani dietro la schiena. Da quel momento ho un black out e non ricordo. Da settimane provo a ricordare cosa sia accaduto, ma è buio totale. Mi sono ritrovata in un posto di polizia, una sorta di prigione».

Si tratta di scene che, forse, abbiamo visto in qualche film. Ma invece sono reali, accadono veramente. Atika prosegue il racconto, con le lacrime agli occhi, ma senza mai abbassare lo sguardo.
«Mi sono ritrovata in questo posto e ho vissuto l'inferno. Chiedevo cosa stesse succedendo, urlavo perché, ma nulla. Pensavo ai miei figli, pensavo a mia suocera che era rimasta in città, ma non mi hanno permesso di fare nemmeno una telefonata. Mi trovavo in quel posto senza sapere e capire perché fossi lì, dolorante per le botte ricevute e sotto shock. Mi trovavo lì, da sola, e sapevo solo che non c'erano diritti, non c'era umanità, non c'era legge. Non riesco a trovare nemmeno una parola per descrivere la cattiveria di quelle persone».

Le ferite non sono solo fisiche, ma soprattutto morali. «Ancora oggi non riesco a stare in luoghi piccoli e chiusi, la doccia la faccio velocemente perché mi viene un senso di svenimento e quando cammino per strada devo continuare a girarmi, perché ho paura di essere seguita. In quelle ore l'unico sollievo erano l'acqua e la terra: mi bagnavo il viso per sentirmi ancora viva e mi sdraiavo, trovando nel freddo del pavimento un minimo di conforto. Mi hanno umiliata. Quando un poliziotto ha alzato un braccio mimando il gesto di uno schiaffo gli ho detto «Dammelo pure lo schiaffo, ma un giorno arriverà a te quello della giustizia, che farà molto più male». Intanto pensavo ai miei figli, solo a loro». 

Nel cuore della notte arrivano un avvocato e una traduttrice. «Signora, lei è qui perché ha graffiato un poliziotto», dicono. «Ho risposto che dovevo avvisare la mia famiglia e portare il cibo a mio figlio». «Signora, domani mattina sarà fuori. Dica sempre di sì e firmi tutte le carte, e sarà fuori», dicono.
Torniamo a pensare alla scena di un film. Invece è ancora una volta tutto reale. «La mattina seguente sono uscita e sono andata in ospedale e poi in tribunale, per denunciare l'accaduto. Ho scoperto che durante la notte mio marito, preoccupato, era venuto a cercarmi. Gli hanno detto «sua moglie sta dormendo tranquilla, domani sarà a casa». Non era vero».
Atika ci ha raccontato tutto questo per un solo motivo. «Voglio giustizia, non voglio che accadano mai più cose così. Io ho i miei figli che mi danno la forza, ma ci sono anche persone deboli: io parlo per loro. Io parlo per la giustizia. Io parlo per le persone che sono morte a Ceuta».
Amnesty International ha ricevuto la denuncia e varie associazioni si sono mosse. Perché donne, mamme e persone come Atika non debbano mai più vivere l'inferno.

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