Il sequestro Moro/26

Il sequestro Moro/26

di Luigi Sardi

“Il nostro è un vessillo bianco che non conosce la violenza. Se qualche macchia di sangue lo ha arrossato, non è sangue dei nostri avversari, ma dei nostri martiri”. Benigno Zaccagnini grida queste parole quasi con violenza nel piccolo teatro Foraggiana. Il segretario della Dc è a Novara, è il Primo Maggio e l’articolo di Natalia Aspesi sulla prima pagina di “la Repubblica”, magistralmente fissa il pensiero degli italiani che hanno deciso di voltare le spalle alle Brigate Rosse. Come aveva pronosticato a Trento, nel pomeriggio del 16 marzo di 42 anni fa, René Preve Ceccon il federale del Msi. Come avevano detto gli studenti di sociologia che a Trento avevano conosciuto Renato Curcio, Margherita Cagol, Marco Pisetta, Paola Besuschio e qualche altro aspirante brigatista riuscito a staccarsi in tutta fretta dal marchio della stella a cinque punte.

La folla urla: “Zaccagnini tieni duro, contro i brigatisti facciamo muro” e poi lo scandire di Zac-Zac-Zac che era spontaneo grido di popolo. Ancora da Natalia Aspesi: “Zaccagnini ha il viso grigio, segnato da una smorfia di stanchezza invincibile… Le mani e la bocca gli tremano. E’ un uomo al limite della resistenza”. E’ vero, il quel Primo Maggio la resistenza degli italiani era al limite, si susseguivano cortei di operai, studenti, pensionati, uomini, donne, ragazzi fra le bandiere bianche con lo scudo crociato e la scritta Libertas e quelle rosse con la scritta P.C.I. con la falce, il martello e la stella anche quella a cinque punte. Dal palco del teatro con il microfono fra le mani, Zaccagnini ricorda “quel terribile 16 marzo quando cinque agenti furono barbaramente trucidati e fu rapito l’incomparabile, indimenticabile amico… col cuore lacerato, col dolore che ci preme dentro, noi della Democrazia Cristiana abbiamo dato una testimonianza sofferta della lotta tra il sentimento che ci spinge a compiere certi atti e il senso dello Stato”. I “certi atti” sono la trattativa soverchiatati dalla fermezza del partito contro il ricatto delle Br e il grido della folla diventa urlo con quel “Zaccagnini tieni duro”.
Da ricordare che Moro-Zaccagnini dominavano la scena nazionale dal 18 marzo del 1976, data del tredicesimo congresso della Dc che vide lo scontro – i testimoni lo ricordano molto aspro – fra la corrente di sinistra guidata da Moro e Zaccagnini e quella di destra di Andreotti, Fanfani e Arnaldo Forlani. Prevalse la linea morotea con un 51 per cento, quindi una vittoria risicata e  Zaccagnini divenne segretario del partito. Dunque, amici di vita, amici di corrente. Il no dello “Zac” fu una forzata, tragica, tremenda sofferenza.

Novara, la “fatal Novara” nella storia del Risorgimento, ma una gloria per i tirolesi fedeli al ricordo di Francesco Giuseppe. Novara, il borgo da dove sciamavano le mondine cantando “Ciao, bella ciao… alla mattina, mi sono alzata e in risaia mi tocca andar” divenuta con altre parole, ma con identico ritmo, la ballata dei partigiani dopo 8 settembre del 1943 per esplodere dal 25 aprile del 1945  e negli anni a seguire. Possibile che quelli delle Brigate Rosse non si siano accorti che nella Repubblica nata dalla Resistenza, anche nel nome del comunismo e della bandiera rossa, ammazzavano come le “ss” del maggiore Kappler nel buio delle Fosse Ardeatine? Eppure Anna Laura Braghetti, Mario Moretti, Prospero Gallinari e prima di loro Margherita Cagol di Sardagna, Curcio, Franceschini ed altri, erano – e i superstiti lo sono ancora – persone di cultura che sì, vivevano in un’Italia “squinternata” come la definì Moro, ma dove c’era lavoro, benessere, una sanità alla portata di tutti, e per fortuna eccellente come stiamo constatando in questi tempi mentre i nuovi fascisti e i loro complici premevano al grido di “Ankara, Atene, adesso Roma viene”?

Pensavano davvero di instaurare una dittatura comunista che il popolo non voleva? Scrisse Eugenio Scalfari quando “l’efferata sentenza contro Moro” non era stata ancora eseguita: “L’ obbiettivo fu completamente mancato”, l’appello all’insurrezione armata fallito dove un pugno di facinorosi – a Genova, Torino, Milano, Marghera, persino a Trento – voleva il sovvertimento sulla democrazia. E questo è l’unico mistero che aleggia attorno a quei 55 giorni dove in molti hanno voluto ficcare segreti, trame e oscurità malvagie quanto maldestre dominate dalla Loggia massonica P2 di Licio Gelli additata come il male supremo, dagli articoli di Carmine “Mino” Pecorelli che riceveva le “veline” da un funzionario del Viminale, dai suggerimenti della Cia, del Kgb, dei servizi segreti bulgari che furono più una leggenda che una realtà, e via elencando i mali più profondi cresciuti dopo Piazza Fontana in quel di Milano. Nulla di tutto questo.
La più importante testimone perché protagonista di quell’epoca, Anna Laura Bragetti titolare in via Montalcini numero 8 dell’appartamento contrassegnato come interno 1, la “prigione del popolo”, racconta l’accadimento. Tutto avvenne in quella casa e a Moro venne subito spiegato che “era stato rapito dalle Brigate Rosse e che sarebbe iniziata una trattativa per la sua liberazione, esito al quale il partito armato era interessato quanto lui”. Moro e i brigatisti si mossero fino all’ultimo su quel binario mentre l’Italia si divideva fra intransigenti e possibilisti, fra chi – ma era una minoranza che con il passare delle ore diventava sempre più sottile – non voleva che lo Stato trattasse con i criminali e quanti volevano salvare non tanto Moro come uomo della politica, ma come un qualunque cittadino.

Era noto, anche questo lo scrive Anna Laura Braghetti, che “una certa sinistra rivoluzionaria ma non armata, temeva un esito tragico del sequestro… che l’uccisione avrebbe chiuso spazi politici a tutto il movimento extraparlamentare”. Nell’interno delle Br c’era chi sosteneva che “uccidere Moro, come le Br stavano per fare, fosse un errore politico. Sostenevano che lasciarlo libero sarebbe stato molto più pericoloso e addirittura devastante per la Dc e destabilizzante per tutto il sistema. Sarebbe bastata una dichiarazione esplicita della Dc sull’autenticità politica e sociale del movimento armato”. Sarebbe bastata – ma questo è stato scritto molti anni dopo – la scarcerazione di Paola Besuschio, ferita ad una gamba al momento dell’arresto e operata all’ospedale Santa Chiara di Trento dove era stata trasferita pare – ma questa è una voce  senza una minima conferma – per decisione di Flaminio Piccoli.

Oppure si poteva rilasciare Alberto Buonoconto un nappista che, arrestato a Napoli nel 1975, rinchiuso nel carcere speciale di Trani era crollato fisicamente e psicologicamente. Per la Braghetti “la scarcerazione per motivi di salute di Buonoconto, ci sarebbe bastata. Era possibile, praticabile. Sarebbe stato un gesto di giustizia fatto autonomamente dallo Stato e non una forma di scambio e non si trattava di rimettere in circolazione un soggetto pericoloso, perché Buonoconto era un uomo distrutto”. Che si tolse la vita.
A Torino, nei primi giorni del maggio del 1978, l’avvocato Giannino Guiso, difensore delle Br nel processo di Torino – e la narrazione di Guiso coincide con quella della Braghetti – raccolse da Renato Curcio la dichiarazione che “l’organizzazione avrebbe gradito la chiusura del carcere dell’Asinara e un  allentamento delle misure vessatorie nelle altre carceri speciali”. Anche i capi storici pensavano, ormai, che nessuno di loro sarebbe mai stato scambiato con l’illustre ostaggio, e provarono a ricavare comunque qualche cosa dall’azione delle Br. Ma i democristiani, i comunisti, i repubblicani – il loro leader Ugo La Malfa aveva chiesto la pena di morte per i brigatisti – fecero finta di non sentire”. Forse sarebbe bastato, con una mera scusa logistica, chiudere l’Asinara e Moro sarebbe stato liberato”.

Moro ucciso non sarebbe servito. Sempre dalla narrazione della Braghetti: “A Mario Moretti ripugnava uccidere un uomo con il quale aveva trascorso tanto tempo. Lo conosceva, sapeva quanto temesse di lasciare indifesa la sua famiglia. E lui gli chiese di rivolgersi per estremo tentativo proprio alla sua famiglia, spiegando che per salvargli la vita sarebbe bastata una sola parola di Zaccagnini”. Scritto molti anni dopo il delitto, il racconto della Braghetti può anche apparire come il tentativo di mostrare un “volto umano” a quella banda di assassini seriali. Ma può anche rispecchiare la verità. Lei con Moretti, Prospero Gallinari e Valerio Morucci hanno trascorso 55 giorni a stretto contatto con il prigioniero.

Certo, rappresentava “trent’anni di lurido regime democristiano”, ma era un uomo con il quale avevano discusso, letto i suoi pensieri, condiviso un obiettivo di reciproca salvezza. L’ultimo tentativo – documentato dalla intercettazione telefonica dell’utenza della famiglia Moro – lo ha fatto Moretti. “Telefonò alla signora Moro da una cabina telefonica pubblica con Adriana Faranda, Valerio Morucci, Barbara Balzerani e Bruno Seghetti raccolti attorno per fargli scudo e nasconderlo. Le disse che doveva muoversi, fare in fretta, ottenere un pronunciamento chiaro da Zaccagnini, spiegando che per salvare la vita del presidente bastava una sola parola del segretario della Dc. Lei, disperatamente, negò di avere questo potere sulla Dc”. Basta quel “disperatamente” riportato dalla Braghetti per capire che la decisione di uccidere Moro lacerò – pur non segnandone ancora la fine – le Brigate Rosse.

(26. Continua)

comments powered by Disqus