Il sequestro Moro/24

Il sequestro Moro/24

di Luigi Sardi

Il brigatista, carceriere di Moro, telefona alla famiglia del presidente rapito per dire che “solo un intervento immediato e chiarificatore” di Zaccagnini potrebbe impedire l’uccisione dell’ostaggio. Succede il 30 aprile e si capisce che ai brigatisti basterebbe un segnale da parte del Governo. Le Brigate Rosse avrebbero accettato lo scambio uno contro uno, purché accompagnato –  e questo particolare sarà raccontato molti anni dopo da Anna Laura Braghetti, una delle “secondine” del prigioniero  – “da una dichiarazione esplicita della Dc sull’autenticità politica e sociale del movimento armato”.

Al telefono c’è Mario Moretti. A rispondere Maria Fida, la figlia di Moro. La telefonata è molto lunga, registrata dalla polizia che controllava l’ utenza di casa del presidente. “Io sono uno di quelli  che hanno a che fare con suo padre. Le devo fare un’ultima comunicazione… siete stati un po’ ingannati e state ragionando sull’equivoco. Finora avete fatto soltanto cose che non servono assolutamente a niente. Ma crediamo che ormai i giochi siano fatti e abbiamo già preso una decisione. Nelle prossime ore non possiamo fare altro che eseguire ciò che abbiamo detto nel comunicato numero 8”, quello che annunciava la condanna a morte. Però il brigatista lascia aperto uno spiraglio, che è il succo della telefonata, molto rischiosa perché era ovvio che il telefono di casa Moro fosse controllato e poteva anche succedere che l’intercettazione poteva portare alla cabina telefonica: “Quindi chiediamo solo questo: che sia possibile l’intervento di Zaccagnini, immediato e chiarificatore in questo senso (nel citato comunicato si indicava lo scambio di prigionieri nel rapporto di tredici ad uno). Se ciò non avviene, rendetevi conto che non potremmo fare altro che questo. Mi ha capito esattamente? Ecco, è possibile solo questo. L’abbiamo fatto semplicemente per scrupolo, nel senso che, sa, una condanna a morte non è cosa che si possa prendere alla leggera”.

Insomma, anche i brigatisti mostravano di avere qualche scrupolo prima di uccidere. Rispose la figlia di Moro: “Abbiamo fatto quello che abbiamo potuto” e Moretti rispose: “Il problema è politico, a questo punto deve intervenire la Dc. Abbiamo insistito moltissimo su questo, è l’unica maniera in cui si può arrivare ad una trattativa”, lo scambio di almeno un prigioniero per avere una legittimazione. “Solo un intervento diretto, immediato, chiarificare di Zaccagnini può modificare la situazione. Noi abbiamo già preso una decisione, nelle prossime ore accadrà l’inevitabile. Non possiamo fare altrimenti. Non ho nient’altro da dirle”. E il brigatista Moretti riattaccò.   

Ecco, la trattativa. Un prezzo enorme per lo Stato che aveva perso cinque dei suoi militari e che aveva espresso, per voce del presidente del Consiglio nella famosa interista a “Tribuna politica”, quel categorico no al baratto. Un vicolo senza sbocco: non si poteva riconoscere un partito di assassini, però se non si accettava la trattativa, la Repubblica italiana dopo aver abolito la pena di morte, consegnava un uomo al plotone di esecuzione.

E’ il Primo Maggio la festa del lavoro, l’altra grande – dopo quella del 25 aprile – ricorrenza laica. Piazze gremite, un grido comune: “Moro libero”. Che nella prigione del popolo, nell’appartamento affittato dalla Braghetti, è libero solo di scrivere e lui, “con la solita calligrafia”, si rivolge alla segreteria della Dc, a Craxi, Flaminio Piccoli, Fanfani, Pietro Ingrao, Andreotti, Riccardo Miasi, al Presidente della Repubblica Giovanni Leone e ai deputati Erminio Pennachini, Renato Dell’Andro e Tullio Ancora che, su richiesta di Moro, si incontra subito con i dirigenti del Pci ai quali Moro chiede di non opporsi allo scambio, pur continuando a mantenere una posizione formale di intransigenza. A Craxi rivolge un appello perché prosegua nel suo tentativo di mediazione e il leader socialista incontra immediatamente Zaccagnini per una proposta: la grazia a due detenuti che, lo si saprà negli anni successivi al delitto sono la brigatista Paola Besuschio che deve essere operata e il nappista Alberto Buonaconto in condizioni di salute critiche.

La lettera di Moro a Craxi contiene la frase: “Ma io ti scongiuro di fare in ogni sede opportuna tutto il possibile… non c’è un minuto da perdere e io spero che al Raphael” – l’albergo divenuto il quartier generale socialista dal quale il Bettino del sole nascente si allontanerà in tutta fretta sotto una pioggia di monetine nei giorni bui delle tangenti – “o al partito questo mio scritto ti trovi”. Craxi mostra a Zaccagnini lo scritto di Moro e una pagina dell’ “Avanti!” dove si legge: “Lo Stato può valutare se esiste la possibilità di una iniziativa autonoma che sia fondata su ragioni umanitarie e che si muova nell’ambito delle leggi repubblicane”. Scrisse Miriam Mafai sulle pagine di “la Repubblica” che “la posta è, assieme alla vita di Moro, la credibilità dello Stato democratico”. Craxi aveva proposto di riesaminare l’opportunità di riveder le carceri dette speciali istituite come riposta dello Stato ai sequestri compiuti dai banditi sardi, al terrorismo politico, al cancro della mafia che ancora la fa da padrona assieme ad altre disonorate società. Soprattutto un provvedimento di grazia – il Presidente della Repubblica Leone aveva sempre l’animo ben predisposto e la penna pronta – in favore di alcuni detenuti appartenenti alle Br o ad altre formazioni armate “in virtù delle loro particolari condizioni di salute… Non si tratta di aprire una trattativa, ma di dare una prova che lo Stato si comporta con umanità”.

Si apprende che nonostante le posizioni di facciata, a Piazza del Gesù c’è una rottura perché si è formato un ampio fronte favorevole alla tratattiva. Una vita umana contro astratti principi? Può un credente, un cristiano anche poco praticante esitare? C’erano quei cinque morti nella mattanza di via Fani. Ma, a pensarci bene, quei cinque servitori dello Stato trucidati in pieno giorno, in una via della Capitale “facevano ragione perché ce ne fosse un sesto?” E dalla “prigione del popolo”  quel sesto uomo scriveva: “Parlo innanzi  tutto del Partito Comunista, il quale pur nell’opportunità di affermare l’esigenza di fermezza, non può dimenticare che il mio drammatico prelevamento è avvenuto mentre si andava alla Camera per la consacrazione del Governo che mi ero tanto adoperato a costruire”. Un governo con l’avvallo del Partito comunista, il primo dopo il tempo di Palmiro Togliatti. Francamente all’epoca non si capì perché le Brigate Rosse fossero contro il Partito comunista.

(24. Continua)

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