Cent'anni fa moriva Francesco Giuseppe

Cent'anni fa moriva Francesco Giuseppe

di Luigi Sardi

La pioggia fredda, insistente, sottile, rigava i vetri delle finestre del castello di Schönbrunn. Era il 21 novembre del 1916, le tre del mattino, la nebbia si sfilacciava fra i rami spogli mentre marcivano le foglie degli aceri, tigli, faggi e castani dell’infinito parco disegnato con precisione geometrica. Era buio ma lui, l’Imperatore, era già seduto allo scrittoio. Come accadeva da anni si era alzato dal suo ruvido letto da campo nel cuore della notte perché doveva compensare la diminuita efficienza nel consueto lavoro di primo funzionario del suo Stato, dedicandovi più tempo. Ma era stanco, malato, tormentato dalla tosse, dalla febbre, dal quel respiro sempre più lento, più roco e affannoso. Attorno a lui le cose di sempre.

Alla parete il grande ritratto della bellissima Elisabetta assassinata da un anarchico italiano, sul tavolo il cestello di cristallo con le penne, il calamaio, il tagliacarte, il tampone di carta assorbente, la lampada da tavolo e il telefono, l’unica nota di modernità che Francesco Giuseppe aveva dovuto accettare ma oppositore delle tendenze alle cose moderne, continuava a guardare con sospetto quell’apparecchio che trasmetteva solo una voce e non faceva vedere chi parlava.

Erano le cinque quando gli portarono l’Eucarestia, la febbre era salita a 38,1 e due camerieri sbirciavano da una porta lasciata socchiusa: avevano l’ordine di sorvegliarlo mentre l’aiutante di campo gli stava, come sempre, vicino. Attorno a mezzogiorno bevve qualche cucchiaio di brodo e subito si accasciò sulla scrivania da dove regnava per grazia di Dio i suoi sudditi governati in nome di Dio. Si riprese, tornò al lavoro ma non riusciva a tenere la penna fra le dita e stava aggrappato allo scrittorio, il suo piccolo regno dal quale mandava l’ordine nel suo grande regno.

Alle 7 di sera lo misero a letto. Si addormentò subito e l’affanno del respiro sembrò chetarsi. Si svegliò di colpo, si mise a sedere per tornare ad afflosciarsi sui cuscini. Il cameriere gli sussurrò se stava comodo. Rispose «Sì, va bene» e subito si spense nel nulla, come si spegne una candela. Erano le 21,05 del 21 novembre del 1916. Dunque cento anni fa.

Come a voler testimoniare che la morte è uguale per l’Imperatore come per ogni suo suddito venne compilato il modulo burocratico di decesso nel quale si leggono scritte a stampa le domande e in corsivo le risposte: «Ultimo domicilio stabile: XIII circoscrizione, imperial e regia residenza di Schönbrunn. Nome e cognome: S.M. Imperatore Francesco Giuseppe I. Attività e condizione: Imperatore d’Austria, Re d’ Ungheria. Religione: cattolica romana. Stato civile: vedovo. Circoscrizione territoriale competente: Vienna. Causa immediata della morte e indicazione dell’eventuale malattia dalla quale abbia avuto origine la causa immediata del decesso: Collasso cardiaco in seguito a polmonite e pleurite. Luogo di sepoltura: Cripta dei Cappuccini. Funerali: nella Hofburg. Data di morte: 21-XI-1916 ore 21,05. Fatto in Vienna il 23 novembre 1916 alle ore 10,30».

Era nato a Schönbrunn il 18 agosto del 1830 quando la rivoluzione industriale scopriva il vapore, in Inghilterra veniva inaugurata la prima ferrovia tra Liverpool e Manchester e la Grecia diventava stato sovrano staccandosi dalla Turchia. Indossava bene l’uniforme, il portamento marziale era accompagnato da una squisita amabilità; sapeva stare magnificamente a cavallo e avrebbe cavalcato per tutta la vita alla testa del suo esercito, adorato, idolatrato ancora oggi da quanti tengono, qui nel Trentino, il suo ritratto come una reliquia. Raramente un uomo ha segnato un’epoca in maniera così emblematica.

Monarca autoritario di stile feudale regnava dal 2 dicembre del 1848; era il Signore assoluto, unico detentore del potere legislativo, esecutivo e giudiziario che garantiva un eguale trattamento delle diverse nazionalità racchiuse nei confini del suo impero per quanto riguardava la lingua, la scuola, la giustizia e molto altro ancora ma nel Diciannovesimo secolo, quello della belle epoque, questo non bastava più perché i popoli pretendevano una propria identità e la sovranità. E i primi erano gli italiani, anzi i lombardi, che il 4 settembre del 1847 quando a Milano si insediò il nuovo arcivescovo, l’italiano Carlo Bartolomeo Romilli, il popolo della città definita la più italiana d’Italia, si assiepò davanti al Duomo gridando «Viva Pio IX, abbasso l’Austria» segnale dell’inizio di quella secolare rivolta all’aquila bicipite.

Non aveva mai avuto dubbi il Luogotenente generale Franz Conrad von Hötzendorf quando affermava che l’Italia avrebbe tradito gli alleati della Triplice attaccando l’Austria nei nomi di Trento, di Trieste, del Risorgimento, in realtà per guadagnarsi un ruolo di grande potenza in un’Europa che invocava la pace ma forgiava cannoni. Nel 1908, nei giorni del terremoto di Messina, il generale voleva una guerra preventiva ma Francesco Giuseppe aveva detto di no aggiungendo che «l’Austria non ha mai cominciato una guerra» ricordandogli quel «e pacifico risplenda – Sovra l’Austria ognora il sol» per sentirsi rispondere «purtroppo Maestà» che era un rimprovero all’Imperatore.

Poi la guerra scoppiò. E fu una strage. Di uomini, ma di loro i governi poco si curavano perché la carne da cannone era abbondante e si importava in massa dal Marocco, dal Senegal, dall’India, dall’Indocina. Ma era un’enorme distruzione di materiali che avevano costi esagerati e dissanguavano le casse degli stati belligeranti. Il 7 novembre di quell’anno il presidente degli Stati Uniti Thomas Woodrow Wilson – nel suo credo di quacchero era contemplato il rifiuto alla guerra alla quale poi aderì spinto anche dagli enormi interessi dei fabbricanti d’armi – si era rivolto a tutti i governi degli stati in guerra invitandoli a cercare una via per raggiungere la pace. Ma a Vienna Francesco Giuseppe non arrivò a leggere quella nota.

Da giorni non era più in grado di prendere in mano i documenti che mai aveva lasciato inevasi.
Sulle note rapinose e inebrianti dei valzer che nel 1848 siglarono la restaurazione contro la rivoluzione europea, in quel 1916 i soldati dell’Imperatore tentavano di arginare ad est le sterminate armate dello zar e a sud il secolare nemico, il portatore di quell’ irredentismo che era riuscito a collegarsi prima politicamente poi, nel corso della guerra, militarmente con gli aneliti delle altre identità nazionali racchiuse dall’Isonzo alle rive del San, fino a frantumare l’Impero. A maggio era fallita la «spedizione punitiva» che dagli Altipiani doveva portare gli austriaci a Venezia e dai Carpazi, gli Scarpazi nella storia dei trentini con la divisa austriaca, alle desolate doline del Carso, sulle note d’assalto della Marcia di Radetzky l’Austria combatteva l’ultima, fatale battaglia.

Anche il vecchio imperatore lo aveva capito ma ligio al ferreo legame alle tradizioni non era riuscito ad affrontare i mutamenti imposti dal nuovo secolo. Quella guerra che aprirà la via alla strage degli armeni, al bolscevichismo, al fascismo, al nazismo e alla nuova tragedia militare del 1939, aveva reso ancora più amari gli ultimi mesi del lungo regnare di un monarca assoluto che aveva sempre desiderato chiudere i suoi giorni in pace. Certo, lui aveva firmato la dichiarazione di guerra alla Serbia, ma lo aveva fatto controvoglia, spinto dai militari dopo l’assassinio dell’erede al trono a Saraievo compiuto con quelle tre revolverate esplose nel giorno di San Vito. Arrivò l’autunno del Sedici e infuriava quella guerra alla quale Francesco Giuseppe aveva partecipato con riluttanza e che Guglielmo di Germania e Nicola lo zar di tutte le Russie avevano iniziato con troppo entusiasmo.

Dietro l’augusta facciata di civiltà cristiana stridevano nei vari paesi i ceppi delle galere e l’aquila bicipite – la spennata gallina nell’italico gergo risorgimentale – racchiudeva profonde contraddizioni. Francesco Giuseppe stava alla scrivania per guidare burocraticamente il suo stato, mentre si forgiavano quelle armi che avrebbero distrutto il trono degli Asburgo. Ma era troppo vecchio per capire i mutamenti del nuovo secolo, cogliere quelle ventate di ribellione, d’indipendenza e di libertà che da San Pietroburgo a Milano erano una sfida alle teste coronate mentre crescevano altri potenti, quelli che poi verranno indicati come «i padroni delle ferriere» cioè i fabbricanti e i mercanti di cannoni.

I ricordi correvano facilmente  al 24 giugno del 1859, su quel fronte di venti chilometri che s’allungava dall’estremità meridionale del Lago di Garda fino alle prime risaie della Pianura Padana, a Solferino dove 133.000 austriaci e 151.000 francesi e piemontesi si affrontarono e si scannarono in una terribile battaglia. Le fortune non furono dalla parte degli austriaci, né potevano esserlo perché i cannoni che ormai dominavano i campi di battaglia, se erano andati bene ai tempi di Maria Teresa, erano sistematicamente distrutti dagli artiglieri francesi che manovravano bocche da fuoco a canne rigate. E poi i francesi usarono la baionetta e i «tirailleurs», i tiratori scelti che massicciamente faranno la loro tragica comparsa sul Carso mentre i piemontesi gettarono nella mischia i Bersaglieri e i Reali Carabinieri a cavallo, soprattutto sardi, che sulle lame delle sciabole portavano inciso da una parte «Viva il Re» e dall’altra «Viva l’Italia».  

Francesco Giuseppe era su una collina bersagliata dalle granate francesi quando si scatenò un violentissimo temporale, uno di quei nubifragi, caratteristici di quelle zone dove nasce l’Ora del Garda, che s’abbattono quando la calura diventa davvero opprimente. Quel giorno, con quella sconfitta, cominciò il declino dell’Impero. Il Veneto rimaneva una terra italiana sulla quale continuava a comandare l’Imperatore d’Austria e un finanziere francese gli propose di vendere Venezia che gli procurava più spese che guadagni: 600 milioni di Fiorini quando l’Austria aveva un deficit di 280 milioni ma Francesco Giuseppe disse che l’onore non gli consentiva di mercanteggiare un pezzo di regno e per quel dettato non consegnò il Trentino all’Italia per convincere – era l’inizio del 1915 – Roma a restare neutrale.

«A noi non è stata mai concessa la fortuna di un’epoca tranquilla» ripeteva Francesco Giuseppe che s’infuriava quando sentiva nominare Vittorio Emanuele II che gli italiani chiamavano «Re galantuomo», cambiava umore e lo chiamava «ladro di terre e borsaiolo» e Garibaldi «predone e brigante» mentre la Toscana, Parma e Modena si univano con plebiscito – quel plebiscito che non ci fu per il Trentino e per il Sudtirolo – al Regno di Sardegna mentre le Camicie Rosse di Garibaldi conquistavano la Sicilia e  Napoli. Arrivò il settembre del 1870 e la breccia di Porta Pia; Vittorio Emanuele salì al Quirinale, Pio IX si rinchiuse in vaticano, l’Italia era finalmente unita e si cominciò a guardare al Trentino, a Trieste, Gorizia e Fiume.

Si guardava alle terre da conquistare, senza tener conto del volere dei popoli che si volevano assoggettare.
Quando aveva cominciato a governare nel Quarantotto il suo regno era già stato messo in discussione da movimenti moderni soprattutto dal nazionalismo. Con la sua morte diventava imperatore Carlo I d’Austria – Carlo IV come Re Apostolico d’Ungheria – e le battaglie militari e politiche diventavano decisive. Del defunto Imperatore si disse quasi soltanto bene, salvo – ma era ovvio – nel Regno d’Italia e in quella ode di Gabriele D’Annunzio, forse la peggiore uscita dalla penna del «parolaio dell’interventismo» sempre incerto fra la poesia e il pugnale, protagonista di imprese di incredibile coraggio. L’anno dopo a Vienna, nel giorno di giovedì 31 maggio, l’Imperatore Carlo apriva ufficialmente il Parlamento che era stato sospeso da Francesco Giuseppe alla vigilia dello scoppio del conflitto.

Nella cronaca del giornale «Risveglio Austriaco» l’unico quotidiano che in quell’epoca di guerra e di profonda carestia si stampava nella Imperiale e Regia fortezza di Trento si legge: «I deputati, radunati nella Sala del Trono della Hofburg, ascoltano con un raccoglimento degno dell’occasione e dell’ora, il discorso inaugurale dell’Imperatore. Gli hoch, gli evviva, gli zivio, il grido di nazdar non vogliono finire». Sono le molte voci parlate nell’Impero che sta per sgretolarsi sotto la spinta di nove identità nazionali, ma che acclamano con calore Carlo quando dichiara: E’ mia ferma volontà essere un regnante costituzionale. Alto, solenne, si levò quel «Serbi Iddio l’Austriaco Regno – guardi il nostro Imperator» scritto nel 1792 dal poeta austriaco Lorenz Leopold Haschka, messo in musica da Joseph Haydn e divenuto dal 1797 l’inno imperiale e cantato in tutte le lingue dell’Impero.

Si apre il Parlamento, molti deputati vestono l’uniforme militare e corone di fiori sono deposte sugli scranni di quelli caduti sui campi di battaglia. Segretario di quella assemblea è Alcide Degasperi. Si chiudeva un’epoca e restano i ricordi. Uno risale all’autunno del 1961. Come ogni giorno, a mezzogiorno in punto, una donna con il volto che ricordava una passata ma appena sfiorita bellezza, con la testa e le spalle coperte da un di pizzo, nero come il vestito che le arrivava ai piedi, varcava con passo lento la soglia di quella cripta che è un cimitero, per deporre un mazzo di sei rose bianche sul sarcofago che custodisce per l’eternità il corpo dell’Imperatore e riprendere quelle portate il giorno prima appena appassite. I camerieri di una vicina Konditorei dicevano, a bassa voce, che era la figlia di una nobildonna della Corte dell’Imperatore. Ma nessuno conosceva il suo nome.

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