Lanterna magica

La nuova Repubblica e gli incontri di Edo Benedetti con Alcide Degasperi

L'indimenticabile sindaco di Trento dal 1964 al 1974, che combattè come volontario aggregato all'Esercito americano contro i nazisti, fu protagonista nell'immediato dopoguerra anche di tre episodi poco noti ma significativi: dialogò con il leader Dc nella Roma appena liberata poi anche a Rovereto

di Luigi Sardi

Era la fine del 1947 e c’era aria di elezioni, quelle che cambiarono l’Italia povera, umiliata, “che aveva naufragato in una guerra non solo persa, ma della quale portava una responsabilità primaria”, come scrisse Andrea Zanotti professore di Scienze Giuridiche all’Università di Bologna e presidente del prestigioso Coro della Sosat.

Un dopoguerra difficile con quella ventata di forti preoccupazioni per la sorte di Trieste occupata dagli jugoslavi protagonisti di una politica di epurazione, con episodi sommari e violenti, in cui si intrecciavano la lotta al fascismo e le operazioni, a raffiche di mitra, per eliminare con l’antifascismo, gli italiani. Fu la riposta tragica, terribile alla disastrosa occupazione nazifascista durante la quale il Regio Esercito trasformò Lubiana in un enorme campo di concentramento e dove, per combattere la guerriglia partigiana, vennero commessi crudeli delitti.

Il quadro dell’Italia di quell’epoca era davvero drammatico, segnato da mesi di bombardamenti alleati, dalle rappresaglie naziste e fasciste, da una guerra civile spietata, costellata al Nord di episodi che furono orrendi. Il tema delle violenze post belliche diffuse in molte zone del paese, costrinse il Governo di Degasperi “sulla necessità di controllare il passaggio alla pace con la riaffermazione dell’autorità dello Stato e il disarmo effettivo di qualsiasi formazione” e così ogni qualvolta si accennava alle elezioni, si dove fare i conti con situazioni dove dominava l’uso dei mitra.

Anche il Pci, il Partito comunista italiano con la falce ed il martello intrecciati sulla bandiera rossa e lo sguardo, ma non il portafoglio che restava quasi sempre vuoto, rivolto all’ Unione Sovietica del compagno Stalin, si era impegnato a fondo per controllare il fenomeno detto dell’illegalismo e il comportamento di un’area militarista del partito. Banditismo politico e quello di strada. Una lettera pubblicata sul settimanale “Tempo” del 23 agosto del 1947 denuncia la morte di una donna sull’autostrada Roma-Ostia uccisa da una sventagliata di mitra sparata da un carabiniere contro l’automobile che non si era fermata al segnale di alt.

Scrive il giornale: “Centinaia di volte sui giornali abbiamo letto che su questa o quella strada, di giorno e di notte, automobili, autocarri, autopullman, si è visto intimare l’alt da una o più persone vestite da militari alleati o da carabinieri che si rivelavano dei delinquenti autentici: spogliavano i viaggiatori del denaro e di ogni bene, violentavano le donne e così molti autisti avevano imparato a fuggire da quei falsi posti di blocco rischiando le raffiche di mitra”.

Tempi durissimi. Oggi si è quasi persa la memoria su quella che fu la condizione drammatica dei rifornimenti alimentari. Imperava la borsa nera, la prostituzione, la fame. Nel durissimo inverno del 1946 che gli ormai pochi superstiti di quell’anno ricordano per il freddo, le tormente di neve, le case senza riscalamento, si riuscì a sopravvivere con l’aiuto delle derrate Unrra che gli Stati Uniti avevano cominciato a distribuire dal 8 marzo del 1945 nei territori dell’Italia liberata.

Si attendeva il nuovo raccolto che sarebbe stato un poco più rassicurante del precedente; però era cominciata la ripresa industriale, molto più lenta quella del settore edilizio, buona quella ferroviaria. Le massicciate divelte per centinaia di chilometri, dai convogli-aratro usati dai tedeschi in ritirata, venivano ripristinate con il porfido frantumato nella cava di Marter di Roncegno in Valsugana, il famoso pietrisco di Monte Zaccon trasportato in tutta l’Italia da convogli di carri-merci, in partenza dalla stazione di quel paese.

Appunto nel novembre del 1947, a Napoli c’era stato il congresso della Democrazia Cristiana (la Dc). Un’assise tranquilla; Alcide Degasperi aveva lasciato la segreteria per assumere la presidenza del partito, mentre Pietro Nenni il leader storico del Partito Socialista Italiano, si affiancava ai comunisti di Palmiro Togliatti che - questo lo scrisse il giornalista Indro Montanelli - “marciavano ormai insieme, ignari di procedere a ranghi serrati verso una catastrofe elettorale”.

Alla fine del novembre del Quarantasette, Nenni, invitato dai sovietici, andò a Praga. Ricordiamo che in quell’epoca era molto difficile muoversi fuori dai nostri confini dove gli italiani erano odiati da francesi, Inglesi, belgi e olandesi perché noi eravamo stati gli aggressori. E ci disprezzavano in Austria e nella Germania dell’Ovest perché eravamo stati traditori.

Impossibile andare in Jugoslavia, Albania e Grecia per via dei crimini commessi durante l’occupazione militare; problematico varcare la cortina di ferro. Nenni a Praga incontrò Georgij Maksimilianovič Malenkov, (in russo Гео́ргий Максимилиа́нович Маленко́в), all’epoca capo del Partito Comunista dell'Unione Sovietica, soprattutto ben visto da Stalin.

Un Nenni, intimidito da quell’incontro, chiese cosa potesse fare l’Unione Sovietica per l’economia italiana e il compagno totalmente all’oscuro dalla vivacità dell’economia del mondo occidentale - all’epoca si chiamava Mondo Libero - e legato, né poteva essere diversamente, al modello economico dell’Urss rispose: “Se le sinistre vincono le elezioni e tornano al governo, nel 1948 l’Unione Sovietica potrà far fronte al fabbisogno di grano” che si produceva in Ucraina. “Per il carbone non può far nulla per ancora tre anni”.

Su questa frase, accettiamo che sia vera, si imperniò un dibattito giornalistico concluso, decenni dopo, con Montanelli a scrivere: “Era archeologia economica, e nessuno dei due interlocutori se ne rendeva conto.”

Però il Governo di Degasperi coltivò buoni rapporti con l’Urss, negando pubblicamente che ci fossero ostilità antisovietiche sue o del suo partito e affermò: “E’ assolutamente estraneo al nostro pensiero il proposito di subordinare in qualche modo a pregiudiziali anticomuniste la nostra politica verso la Russia, del cui enorme peso economico, militare, politico ci rendiamo perfettamente conto. Ciò significa che non solo non le siamo ostili, ma che non intendiamo affatto di essere o di servire da eventuale antemurale offensivo contro il mondo slavo in generale, contro la Russia sovietica in particolare. Ciò significa altresì che non siamo disposti ad entrare entro alcuna coalizione offensiva che sia eventualmente diretta contro Mosca”. Altri tempi, ovviamente. Ma altre intelligenze dalle quali scaturiva questo linguaggio consegnato alla storia. 

La campagna elettorale fu lunga, vivacissima; i muri degli edifici erano tappezzati da manifesti. Il più lugubre mostrava un cosacco ovviamente russo, con un teschio come testa, che abbeverava i cavalli alle fontane del Bernini. Ricordo un articolo che raccontava come “i perfidi Russi condurranno allo sfacelo l'Occidente e annientare la Chiesa e, come gesto di dileggio, manderanno i cosacchi ad abbeverare i loro cavalli in Piazza San Pietro”. Ma per fortuna c’era lo scudo crociato sul quale si infrangeva la lama del simbolo comunista, appunto la falce con il martello del Fronte Democratico Popolare, lista che comprendeva sia il Partito comunista che quello Socialista. 

“Il Fronte vince - Vota Fronte” questo lo slogan supremo dei socialcomunisti ribattuto dallo slogan caro ai cattolici e davvero persuasivo: “Nella cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no” che fu vincente fra la moltitudine delle pie donne - le beghine per i comunisti - chiamate al voto. E c’era anche un manifesto che inneggiava a Cesare Battisti rimasto in Austria per farsi impiccare mentre Degasperi era fuggito dalla sua patria (la “p” era minuscola, lo ricordo bene) per nascondersi in Vaticano. 

Fu uno scontro che coinvolse tutti gli Italiani. I comunisti avevano messo in dubbio l’italianità di Degasperi e il cognome venne distorto in von Gasper e forse, da qui lo scritto “De Gasperi” oggi di moda. Le ultime illusioni di vittoria il Fronte si ebbero nei comizi di chiusura della campagna elettorale.

Raccontò Indro Montanelli che per ascoltare Palmiro Togliatti in piazza San Giovanni, la sera di venerdì 16 aprile affluì a Roma una folla oceanica. Poiché Degasperi gli aveva rinfacciato d’avere “come il diavolo, il piede forcuto, Togliatti replicò che, tentato per un momento di mostrare che i suoi piedi erano normali, aveva poi cambiato idea. Mi tengo le scarpe ai piedi, anzi ho fatto mettere ad esse due file di chiodi e ho deciso di applicarle a Degasperi dopo il18 aprile in una parte del corpo che non voglio nominare”. Aggiunse Montanelli che i militanti erano in delirio e cantarono “vattene, vattene odiato cancelliere, se no ti prendiamo a calci nel sedere”.

Perse, clamorosamente, la sinistra; l’Unità tentò la mattina del 20 aprile di capovolgere la verità. Intervenne Pietro Nenni a dire. “Nessun dubbio, siamo battuti”. E fu una batosta. Al partito di Degasperi andò il 48,5 dei voti contro il 35,2 dei voti della Costituente. Al Fronte il 31 per cento contro il 39,7 di due anni prima; a Roma Degasperi ebbe 285 mila voti contro le 97 mila preferenze di Togliatti e le 57mila di Pietro Nenni. Numeri imponenti che i politici di oggi neppure li sognano.

A questo punto ci sono tre episodi forse poco noti ma significativi. Due riguardano gli incontri di Edo Benedetti con Degasperi nella Roma appena liberata, e ancora Benedetti che a Rovereto, viene abbracciato dall’appena eletto Presidente del Consiglio.

Appunto “Edo Benedetti, indimenticabile, sindaco di Trento dal 1964 al 1974, che lo ha scritto Pino Morandini, si distinse mirabilmente coniugando efficacemente modernità e cultura dell’umano, così conferendo alla città una pace sociale invidiabile. Peccato non ne abbiano seguito l’esempio i suoi successori”.

Questo il pensiero di Morandini, già vicepresidente della giunta provinciale, giurista che in seguito a pubblico concorso per esami, ha lavorato presso l’Ufficio Legislativo del Consiglio provinciale, per diventare magistrato del Tar.

Ecco Benedetti già ufficiale del Primo Reggimento Granatieri di Sardegna, raccontare la battaglia fra raffiche di mitraglia e bombe a mano, di Monte Lungo, quella del 6 dicembre del 1943 contro i paracadutisti tedeschi della divisione Hermann Göring nella quale combatteva Mario Iori “Marmolada”, che dopo la guerra gestì il famoso rifugio ai piedi della Regina delle Dolomiti, e l’arrivo nella Roma liberata. 

A Bari aveva incontrato il futuro senatore democristiano Paolo Berlanda e Aldo Bertoluzza che gli parlarono di Degasperi. Ecco il racconto che mi fece. “Ne avevo sentito parlare, mi dissero che lavorava nella biblioteca vaticana e appunto attraverso il Vaticano potevo far giungere mie notizie ai miei familiari che erano a Trento divenuta città germanica, insomma del Terzo Reich. I discorsi di Paolo e Aldo mi incuriosirono, mi dissero che Degasperi era stato deputato in Austria e poi in Italia nel partito di don Luigi Sturzo, quello dei popolari, i “pipini” come li canzonavano i fascisti nelle strofe di Giovinezza.

Quando sono arrivato a Roma sono andato in Vaticano e Degasperi mi ha ricevuto in un piccolo ufficio presso la biblioteca. Ricordo un tavolino ingombro di carte, il suo viso piuttosto triste, molto pallido, i capelli spettinati come sempre e i soliti occhiali, sì quelli con la montatura chiara che si vedono nelle fotografie e che teneva sulla fronte. Non ha sorriso anche se si è dimostrato molto incuriosito della mia presenza, di questo trentino che vestiva la divisa americana. Mi sono presentato, gli ho detto che ero di Rovereto e subito lui mi ha accennato a Rosmini. A quei tempi la mia conoscenza di Rosmini era molto limitata e allora io ho lasciato cadere il discorso e gli ho raccontato le più recenti vicende della guerra.

Lui conosceva esattamente la parte politica, mentre era informato a malapena sui movimenti delle truppe alleate nel Sud Italia. Io mi sono dilungato e lo ricordo molto attento, interessato. Seguiva il mio racconto e mi faceva domande su come eravamo trattati dagli americani, come ci accoglieva la gente, come era il cibo, sì il rancio. Inizialmente ero in soggezione, ma quando ho finito il mio racconto e lui ha cominciato a parlare, è stato un dialogo splendido, molto bello, che mi ha affascinato”.

Ecco l’incontro fra il giovane ufficiale e il veterano della politica, fra l’uomo d’armi e quello di pensiero nel piccolo ufficio dove è nata l’Autonomia e una parte della storia della nuova Italia. “Lui cominciò a parlare di quel clima nuovo che si doveva creare in Italia e mi parlò della democrazia. Anzi, mi fece una lezione sul significato di democrazia e come doveva funzionare nel nostro Paese”.

I giovani di allora poco o nulla sapevano di politica, avevano ascoltato gli slogan del fascismo sulle “giudaico bolsceviche negroidi democrazie” e si può immaginare la sorpresa del tenente Benedetti di fronte a Degasperi che gli raccontava del suo passato di giornalista a Trento.

“Mi parlò di Battisti e Mussolini anche loro giornalisti a Trento; non mi disse perché si trovava in Vaticano né io glielo domandai.  Invece mi fece capire come si doveva recuperare il Paese dalla dittatura fascista e passare ad un sistema democratico, transito che doveva, anzi poteva avvenire solo attraverso l’impegno dei partiti che stavano rinascendo. Lui aveva già un’idea ben chiara dei partiti e mi resi conto che aveva alle spalle un’esperienza enorme maturata in Austria ai tempi di Francesco Giuseppe e in Italia dal 1918 fino a quando Mussolini, l’avversario in giornalismo a Trento, lo aveva fatto arrestare assieme alla moglie”. 

Benedetti ricordava come Degasperi gli parlò del futuro dell’Autonomia. “Estrasse alcuni documenti da un cassetto, fece un po’ di spazio sul tavolo e me li mise davanti quasi a voler dimostrare che era già avanti con i suoi studi e mi spiegò, quasi scandendo le parole: noi dovremo realizzare questa Regione Trentino Alto Adige che dovrà essere una cornice e puntando gli indici sul tavolo, disegnò con le mani proprio una cornice, dicendomi che lì dentro dovranno convivere tre gruppi etnici, italiano, tedesco e ladino.

A dire la verità io a quell’epoca sapevo poco dei ladini, credevo che la loro parlata fosse un dialetto, ma rimasi zitto. Lui aveva sentore di una difficoltà di convivenza, del resto era il 1944 e il nemico era il tedesco; noi trentini avevamo capito che da Salorno al Brennero dopo il 1918 molti non volevano parlare l’italiano né essere italiani. Sapevo vagamente che con le opzioni moltissimi avevano scelto la Germania, ma Degasperi mi disse più volte quel dobbiamo convivere.

Quello della convivenza era il punto di partenza e lui aveva già costruito una struttura che contemplava quell’indirizzo che aveva già bene in mente. Non so se pensava di diventare l’uomo chiave della politica regionale. Mai pensavo di vederlo al vertice della politica nazionale e in primo piano in quella europea. Lui aveva la volontà di impegnarsi fino in fondo per realizzare il disegno che aveva in mente”.

Ecco Benedetti nell’ufficio di presidente - ormai onorario - dell’Itas e un po’ dimenticato dai concittadini, indugiare su quei ricordi lontani nel tempo: lui soldato della nuova Italia con la divisa americana che parla con l’uomo destinato a diventare il presidente della ricostruzione, con lo statista che intravedeva in quegli anni spalancati sull’Europa ancora una volta devastata dalla guerra, una unità di popoli e di governi. Era appunto il 1944, la guerra infuriava, la Germania hitleriana poteva ancora vincere eppure quell’uomo aveva il coraggio, la capacità, l’intelligenza di guardare molto lontano. 

Benedetti si disse sicuro che Degasperi parlava “dell’unità italiana mentre al Nord infuriava la guerra civile, del desiderio di vedere gli italiani capaci, da soli, di acquisire una identità, di realizzare la Regione Trentino Alto Adige come strumento importante per poter garantire la convivenza di tre gruppi etnici.

Aveva già in testa l’immagine dell’Autonomia. Fu un incontro piacevolissimo e alla fine mi ha persino sorriso, cosa rarissima per Degasperi. Mi diede anche un paio di pacche sulle spalle e mi accompagnò fino al presidio delle guardie svizzere.

Lo rividi nel 1948 a Rovereto, al teatro Zandonai. Si era nel pieno della campagna elettorale, la folla era enorme, era difficile avvicinarlo. Per fortuna fra gli uomini del suo seguito c’era Luigi Dalvit che mi portò da lui. Mi riconobbe, mi sorrise. Mi strinse la mano con molta forza dicendomi: Vedi come l’Italia sta rinascendo?”.

Benedetti diventerà sindaco della città di Trento e l’incontro con Degasperi entrerà nella storia del nostro Trentino.

Il terzo momento fu in Valsugana, a Marter di Roncegno. Era estate, forse la fine di luglio.

La Dc aveva trionfato nelle elezioni e il parroco aveva detto in chiesa che nel paese sarebbe passato Degasperi per andare in Sella (in Valsugana sopra Borgo) per trascorrere le vacanze nella casa della moglie. Indicò il giorno, fu vago sull’ora.  Di certo nel giorno fissato e di buon mattino, la gente si assiepò lungo lo stradone, dalla Tor Tonda alla stazione che, se ben ricordo, era un viale alberato. Passavano le ore e non passavano automobili. In vero, il traffico lungo la Valsugana era quasi inesistente.

Ad un certo punto transitò una camionetta con tre Carabinieri e poco dopo una Lancia Ardea nera con la scritta, in bianco, sulle fiancate “Il Gazzettino”. Si vide l’autista con il berretto a visiera e altri quattro uomini - uno era un fotografo - stipati nell’abitacolo. Poi arrivò un’auto nera, davvero lussuosa - e per giorni i ragazzetti del paese discussero se era un’Alfa Romeo oppure una Fiat - con le tendine di pizzo ai finestrini. Uno era abbassato; si vide benissimo il volto di Degasperi che sorrideva. E la gente che era sul ciglio della strada si inginocchiò.

Ricordo benissimo uomini e donne che si facevano il segno della croce. Poi seguirono altre auto. L’ ultima a passare fu una Balilla. Si disse che a bordo c’era Tullio Odorizzi, sindaco di Trento. 

comments powered by Disqus