Lanterna magica

Quando i fascisti devastarono redazione e tipografia del “Nuovo Trentino”

Alcuni mesi prima, il 28 gennaio 1926, Alcide Degasperi aveva rassegnato le dimissioni da direttore per il crescere delle minacce sempre più cupe, rivolte alla moglie e alle giovanissime figlie

di Luigi Sardi

A Roma, il quotidiano del Partito popolare italiano, “il Popolo”, era stato chiuso nel novembre del 1925 per le crescenti minacce dei fascisti. Nella Capitale, i deputati che protestando per l’uccisione di Giacomo Matteotti, il leader dei socialisti, si erano ritirati sull’Aventino abbandonando gli scranni di Montecitorio, erano stati dichiarati decaduti e il clima politico si era inasprito il 31 ottobre del 1926 quando Benito Mussolini a Bologna, era sfuggito ad un attentato. 

Stava tornando dall'inaugurazione di un congresso scientifico tenuta all'Archiginnasio; l'Alfa Romeo rossa e scoperta, guidata da Leandro Arpinati, imboccando via Indipendenza all'altezza del Canton de’ Fiori, era stata centrata da colpi di pistola; il Capo del Governo rimase illeso, un proiettile aveva lacerato la fascia del Gran Cordone Mauriziano che indossava (rimarrà esposta a lungo, come un cimelio, nel negozio “Old England”, non era ancora il tempo che vietava la «scimmiottatura delle parole straniere»  dello squadrista Giuseppe Ambrosi) e il proiettile si era conficcato nell'imbottitura dell'auto.

Un gruppo di fascisti si era avventato su chi aveva sparato: Anteo Zamboni, studente di 16 anni, anarchico, venne massacrato con i pugnali e subito la caccia agli oppositori al regime mussoliniano trovò una legittimazione anche agli occhi dei non fascisti.

Le violenze s’accentuarono e a Trento, anzi nella “Trento redenta” la redazione e la tipografia del “Nuovo Trentino” furono devastate nella notte tra il primo e il 2 novembre del 1926. Distrutto il mobilio, gettati dalla finestra i caratteri di piombo della tipografia, fatto fuggire il direttore, il “Nuovo Trentino” in edicola dal novembre del 1918, sospese le pubblicazioni.

“Non ricordo il giorno - dichiarò un redattore di quel giornale, forse si chiamava Umberto Polo, al giornalista Gianni Faustini - ma era sull’imbrunire. I fascisti invasero la tipografia devastando tutto e manganellando chi resisteva. Degasperi salì su una vettura, tentò di rincuorarci e poco dopo partì per Borgo”.

In quelle stesse ore, nuclei di camicie nere avevano occupato e deturpato le sedi del SAIT, della Lega dei contadini e del mondo cattolico trentino.

Alcuni mesi prima, il 28 gennaio 1926, Alcide Degasperi aveva rassegnato le dimissioni da direttore per il crescere delle minacce sempre più cupe, rivolte alla moglie e alle giovanissime figlie: “Le presenti circostanze - scriveva il Direttore - mi determinano a lasciare provvisoriamente il giornale. Il Nuovo Trentino continuerà nello spirito e nella tradizione di giornale cattolico quotidiano, limitandosi, nella parte che riguarda la politica, alla cronaca”. E Degasperi aveva aggiunto: “Lascio il giornale con incredibile strazio. […] È giocoforza ascoltare la voce imperiosa del momento. Tempo verrà”. Poi sull’assalto squadrista alla redazione, aveva scritto: “Si è rovesciato su di noi come un nubifragio, chi più, chi meno, ne siamo tutti usciti malconci”.

Nella direzione del giornale subentrò don Giulio Delugan un personaggio che alla metà degli anni Sessanta - morì nel 1974 - raccontò in una memorabile serata, la sua “avventura” di Direttore.

Su quel assalto squadrista, il Principe Vescovo Celestino Endrici scrisse: “Un ciclone si è abbattuto sopra tutte le istituzioni aderenti all’Azione cattolica, Noi assistemmo addolorati a scene mai viste nella nostra regione. A manipoli di dimostranti tutto era lecito, sotto gli occhi della pubblica sicurezza”. Un mese e mezzo più tardi, il 23 dicembre 1926, sulla piazza di Trento e nelle valli si presentava un nuovo foglio, un settimanale, con la testata “Vita Trentina”. Voluto dagli uomini di “Azione Cattolica”, con la benedizione del vescovo Endrici, dal 1929 fu affidato alla direzione di don Giulio Delugan. Il quale, sia pure fra sequestri e contrasti col fascismo, tenne le redini fino alla fine della guerra, comunque fino al 1968.

Lasciato il giornale, Degasperi si era ritirato nei fitti boschi di Sella di Valsugana, nella modesta casa di montagna dominata da Cima Undici e Cima Dodici mentre continuavano le minacce squadriste. Achille Starace, il “sergente” del fascismo, l’inventore del Saluto al Duce, del salto nel cerchio di fuoco, del sabato fascista, il camerata che fonderà il fascio di Trento e guiderà i picchiatori a Bolzano nella famosa Domenica di Sangue diventando una marionetta vestita d’ orbace al punto che gli universitari di Bologna, sfilando davanti a lui, cantarono: “Il lupo è vorace, l’aquila rapace, l’oca è Starace!” disse chiaramente che avrebbe cercato Degasperi per prenderlo a schiaffi. Ma sembra che il violento pensiero sia stato calmato proprio dal Duce che nel 1909 era stato giornalista a Trento e pur detestando Degasperi, non se la sentì di venire indicato come il professionista che aveva permesso di picchiare un collega. Come raccontava il professor Umberto Corsini indicando che quella poteva essere una leggenda. E come tale, la riporto.

In quel periodo assai molesto, l’uomo del partito di don Luigi Sturzo chiese il passaporto per recarsi in Francia per cure termali, ma il regime negò l’autorizzazione e nel documento sulla domanda, Mussolini scrisse a penna “Niente Passaporto. M.”.  

Allora Degasperi si recò a Vicenza dove trovò ospitalità nella famiglia degli industriali tessili Marzotto che avevano aderito al fascismo e non potevano favorire un personaggio inviso al potere.  Così tornò a Roma sempre controllato dalla polizia politica fascista e cambia identità assumendo il nome di Paolo De Rossi. Sono momenti molto difficili; Mussolini ricordava perfettamente quegli articoli che aveva scritto sul caso Matteotti e faceva controllare in ogni movimento dell’ex deputato. Che l’11 marzo del 1926 con la moglie tenta un viaggio a Trieste. La figlia Roma accennò che i suoi genitori pensavano di raggiungere l’ Austria dove Degasperi era stato giornalista e parlamentare certamente a>pprezzato e in quella terra avrebbe trovato sicuro rifugio. Il viaggio prevedeva un primo spostamento in auto fino ad Orvieto dove la coppia prese il treno per Trieste. L’ Ovra, cioè la polizia politica, ordina con un telegramma a firma diretta del capo della polizia Arturo Bocchini, di arrestare “Degasperi che sta tentando l’espatrio”. Che viene ammanettato alla stazione di Firenze e tradotto a Regina Coeli mentre la moglie viene richiusa nel carcere delle Mantellate.

A Roma Degasperi è interrogato da due agenti di polizia - Guido Leto e Giuseppe D’Andrea - e l’informativa indirizzata al capo della polizia precisa che, a parte una cartina della città di Fiume, non sono state trovate prove o indizi per confermare il tentativo di espatrio, quindi l’arresto.

Processato con l’accusa di essersi allontanato da Roma “e senza essere munito di passaporto, e per motivo politico, tentato di espatriare”. Difeso dall’ avocato Filippo Meda, che era anche un importante leader popolare, il 28 maggio 1927 è dichiara colpevole e condannato a anni 4 di reclusione. Nella motivazione della sentenza d’appello, che conferma la condanna, si legge: “Non può dirsi, poi, che egli abbia agito in tal guisa, per evitare noie da parte di avversari politici, poiché egli avrebbe potuto invocare dall’autorità la necessaria tutela. Devesi invece ritenere che egli avesse voluto sottrarsi alla vigilanza della stessa Autorità, in seguito all’azione svolta come Segretario generale del partito popolare, che era stato sciolto perché ostile al Governo nazionale.”

Donna Francesca, quando a Sella compì i 100 anni, mi disse che alle Mantellate era stata richiusa in uno stanzone dove c’erano solo prostitute, che “mi aiutarono mi confortarono, mi sostennero e chiamarono a raccolta i loro clienti (e molti erano agenti di custodia della prigione) che fecero molto per consegnare alla detenuta biancheria pulita. un pagliericcio nuovo, sapone e un pettine.

Da ricordare che fu Endrici ad affrontare Mussolini e convincerlo a scarcerare Degasperi. Si narrava che indossando gli indumenti maestosi di Principe Vescovo, comparve all’ ingresso di Palazzo Venezia. Chiese di parlare con il Duce che non lo volle ricevere. Allora il Vescovo si sedette dicendo agli scherani che non si sarebbe mosso se non dopo essere stato ricevuto. I moschettieri del Duce erano un reparto scelto della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale fondato da Mussolini l'11 febbraio 1923 con funzioni di guardia d'onore e di sicurezza. Ovvia>mente non si poteva prendere per un braccio quel Vescovo, quel Principe arrivato addirittura da Trento, e sbatterlo fori dal palazzo. 

Né Endrici si mosse. Per andare in bagno, bere un bicchiere d’acqua, il caffè che gli veniva premurosamente offerto. Mussolini ricevette il Vescovo; Degasperi venne scarcerato, costretto a quelli che oggi vengono chiamati gli “arresti domiciliari” e tradotto da Roma a Sella Valsugana.

Un breve cenno alla figura di Celestino Endrici, originario di Don. Era il marzo del 1937 quando Pio XI un Papa che giganteggia nella storia, firmò l’enciclica intitolata “Mit brennender Sorge” (Con cocente preoccupazione) scritta in tedesco perché la diffusione in terra d’oltre Brennero fosse la più capillare possibile, contenente la condanna dottrinale e pastorale delle eresie incentrate sul razzismo nazista e che poco tempo dopo avrebbe travolto molti italiani.

In un pregevole articolo della professoressa Maria Garbari pubblicato sul giornale “l’Adige” di sabato 25 gennaio 2014, si legge come Degasperi avesse scritto che monsignor Endrici richiamava l’attenzione sul verbo del Pontefice e di altri esponenti della Chiesa che avevano espresso la loro opposizione a quella forma di neopaganesimo imposta nel Reich e nell’Unione Sovietica di Stalin dove si stavano cancellando i valori cristiani e - dimenticato il suo passato di campanaro a Venezia nell’Isola degli Armeni - aveva trasformato le chiese in magazzini e i conventi in caserme per l’Armata Rossa.

Sempre Degasperi aveva chiosato il pensiero di Papa Achille Ratti nella “Quindicina” del primo e del 16 aprile del 1937 apparso sulla rivista “L’illustrazione Vaticana” chiedendosi quale sarebbe stata la marcia ormai inarrestabile del nazionalsocialismo che stava entusiasmando gli italiani e non solo quelli di provata fede fascista.  

Ancora da uno scritto di Degasperi del primo giugno sempre del Trentasette: “L’idea della dignità della persona e della sua vocazione spirituale e quella del bene comune fondato sulla giustizia e sull’amore, divengono principio dinamico della vita sociale in contrasto coi miti della classe, della razza, della nazione o dello stato. Bisogna sbarrare la strada al comunismo, come avversare il misconoscimento disumano della dignità del mondo del lavoro e lo sfruttamento della religione in termini di strumento di governo temporale. La contrapposizione liberalismo-socialismo va superata e il radicamento va ritrovato nella vita morale oltre un’economia capitalistica fondata sulla fecondità del denaro e un’economia statalista”.

Forse non tutti i camerati, se qualcuno di loro lesse il messaggio, compresero il verbo degasperiano mentre nella Diocesi di Trento, comprendente allora una parte del Sudtirolo, arrivavano i contraccolpi della spaccatura fra il Reich e la Santa Sede. Dal canto suo, il governo fascista - ricordiamo che il Duce quando nel suo soggiorno a Trento era giornalista nel quotidiano socialista e anti clericale “Il Popolo” di Cesare Battisti e di Ernesta Bittanti, era furiosamente anticlericale e chiamava i cattolici “bisce d’acqua” e “sepolcri imbiancati” - tollerava l’aggressione alla Chiesa ed era sedotto dalle dottrine sul razzismo. In aggiunta, spirando ormai aria di Anschluss, si era accentuata nella parte tedesca della diocesi, la propaganda nazista e Celestino Endrici nella pastorale “Fede e moderni pericoli”, sottolineava la lotta segreta e subdola, indicandola come ancora più pericolosa delle tradizionali forze che combattevano la fede cristiana.

“Tale lotta - anche questo è nell’articolo della Garbari - vedeva i suoi campioni mirare a ricondurre gli uomini ai cosiddetti valori precristiani del popolo e della razza. 

Costoro, identificando Dio con la natura, affermavano che il compito dell’uomo era quello di collaborare allo sviluppo di Dio trasmettendo il sangue dai padri ai figli e ai nipoti. Da qui si è arrivati a riconoscere nel sangue e nella razza i valori più alti dell’umanità. Il neopaganesimo designa come peccato quelle azioni che cozzano contro l’interesse del sangue e della razza essendo sangue e razza le sorgenti di ogni diritto e di ogni morale”. Con questi presupposti, per i nazisti il peccato originale consisteva nel trasmettere “la massa ereditaria tarata”, indicata come un’offesa inammissibile alla vitalità della razza, alla forza e quindi alla supremazia del Paese Germania, o meglio: del Reich che lo si voleva millenario.

Nella enciclica di Papa Ratti, il razzismo era identificato con l’antisemitismo ed Endrici denunciava che “da parte degli odierni nemici del cristianesimo si spaccia l’Antico Testamento come una raccolta di scritti giudaici. Se ne parla con disprezzo come di un asservimento indegno della cultura occidentale”.

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