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Il ruolo di Toni Negri negli anni di piombo

di Luigi Sardi

La morte di Toni Negri, per malattia e per età - 90 anni - compiuti a Parigi dove si era rifugiato grazie al dettato della “Dottrina Mitterrand”, quella decisione politica riferita al diritto di asilo in Francia, enunciata dal presidente socialista francese in un discorso al Palais des Sports di Rennes il 1º febbraio 1985, chiude una vicenda ancora indecifrabile esplosa il 7 aprile del 1979 quando a Padova il giudice Pietro Calogero, e da quel momento il suo cognome venne scritto “Kalogero” come quello di Cossiga divenuto “Kossiga” nel lessico pre rivoluzionario di gran moda in quei tempi bui, mandò in prigione il professore universitario con altri componenti di Autonomia Operaia.

Scrisse il giornalista Indro Montanelli che Calogero “era un magistrato gradito alla sinistra legalitaria, frequentava gli ambienti del Pci (il Partito comunista) aveva indagato per Piazza Fontana l’avvocato Franco Freda e Giovanni Ventura, all’epoca indicati come personaggi della destra più violenta e divenne celebre, a torto o a ragione, per una sorta di teorema che intrecciava le responsabilità dei professori che predicavano l’eversione”, ma Toni Negri predicava la rivoluzione, “a quella manovalanza terrorista. Calogero indicava nei suoi ordini di cattura, reati come la formazione e partecipazione di banda armata, di insurrezione armata contro i poteri dello Stato, poi attenti, omicidi, ferimenti, sequestri”.

Ancora dagli scritti di Montanelli: “Negri, un volto magro, in tutto e per tutto adatto alla sua personalità di professorino (sic) invasato ed ermetico, aveva avuto un fratello maggiore, un Bersagliere del battaglione “Mussolini” della Repubblica sociale italiana, morto in uno scontro sull’ Isonzo nel novembre del 1943, primo Caduto padovano nelle forze armate di Salò”. Certo, Toni Negri era di ben diverso indirizzo ideologico.

Iscritto nella Dc meditava di diventare segretario, poi entrò nei socialisti e laureato con il massimo dei voti, finì in Potere Operaio. Divenne ordinario di dottrina dello Stato nella facoltà di scienze politiche nella prestigiosa Università di Padova e a questo punto quel “professorino” appare davvero fuori posto.

Aggiunge Montanelli: “Il clericale si era definitivamente fatto rivoluzionario e ben presto la polizia e la magistratura ebbero occasione di puntargli gli occhi addosso, tanto che dopo i disordini di Bologna del 1977, riparò in Francia da dove, passata la bufera, rientrò con l’aureola del perseguitato”. La storia si complica quando si cominciò a cercare una connessione fra il professore e le Brigate Rosse. Ma l’astuzia di Negri, come quella di altri maestri della stagione di piombo - i tragici anni di piombo durante i quali si cercò la rivoluzione di marca bolscevica (o bolscevichista dal linguaggio di Alcide Degasperi) - stava proprio nel sostenere che essendo la libera espressione del proprio pensiero sacra e inviolabile, l’istigazione all’odio, alla violenza, all’uso della P38, quindi agli omicidi per ragioni politiche, non erano perseguibili.

Sul banco degli imputati - anche questo è il pensiero di Montanelli - dovevano finire i giovani, drogati dagli insegnamenti dei cattedratici e devenuti sicari implacabili. Il giudice Calogero ritenne di avere dimostrare il legame non unicamente ideologico, ma operativo che esisteva tra Autonomia Operaia e le Br. L’ipotesi divenne rapidamente certezza e con altrettanta rapidità lievitò in molti e autorevoli esponenti della sinistra anche culturalmente avanzata, con una convinzione subito divenuta certezza: non si poteva criminalizzare Autonomia e così diventava “teorema” la costruzione dell’accusa. Quelli erano tempi difficili e molto confusi.

Henry Kissinger, Segretario di Stato degli Stati Uniti, disse che la politica italiana era troppo complessa per poterla capire, eppure quell’uomo nato in Germania di origine ebree, fu l'uomo più capace di comprendere un mondo in continua evoluzione. E' vero, la politica di casa nostra è troppo complessa; vedi le convergenze parallele di Moro ucciso dai comunisti mentre lui li stava portando al potere. Comunisti italiani, sia ben chiaro, senza suggerimenti o appoggi stranieri, ma con la decisione di accettare la condanna a morte arrivata dagli "amici" del suo partito. Tema sul quale per lungo tempo si discusse, ci si lacerò però da tempo dimenticando cosa furono quei tempi bui e sanguinari.

Le vicende giudiziarie di Negri sono state, come di consueto, lente, confuse, contraddittorie e nel frattempo, il clima politico era cambiato, l’attenzione al processo sfumata e quello di Negri e di quelli indicati come suoi complici, sul punto di scivolare nell’oblio, condizione più temuta dagli aspiranti rivoluzionari che si atteggiavano ad allievi di Lenin, Stalin e via elencando. Nel 1983 la Corte d’Assise di primo grado condannò a 30 anni Negri, a 20 ad Oreste Scalzone e altri esponenti di Autonomia condannati per l’uccisione di un loro compagno che si era fatto rapire, anche questo è accaduti, per estorcere alla famiglia il danaro del riscatto e che era morto per una dose eccessiva di narcotico.

Poi Marco Pannella, quello del referendum sul divorzio lo aveva presentato come candidato alle politiche del1983: eletto, venne scarcerato grazie all’immunità parlamentare. E prese il volo per la Francia ipergarantista. Ricomparve a Trento a sociologia una ventina d’anni fa, accolto dal silenzio gelido dei veterani del Sessantotto; venne contestato dal sociologo Giuseppe Raspadori, forse la prese male. Di certo era un dimenticato. In vero, di quell’ epoca, restano le targhe che ricordano i nomi degli uccisi dalle mani criminali che sognavano la rivoluzione.

E’ quasi dimenticata la strage di Milano, quella di venerdì 12 dicembre 1969 alla Banca dell’Agricoltura. Certo, 55 anni non sono bastati per arrivare in fondo a quel pozzo tenebroso nel quale piombarono le indagini; ed è inutile sperare di arrivarci una volta o l’altra. Sorprende l’accanimento dei primi investigatori che si buttarono sugli anarchici. Furono portati in Questura addrittura ottantaquattro militanti anarchici e della sinistra, due della destra: tra gli ottantaquattro Giuseppe Pinelli, un frenatore delle ferrovie che lavorava alla stazione di Porta Garibaldi ed era un anarchico convinto. Ma anche un galantuomo, un idealista sicuramente incapace di spargere sangue, e ancor più di spargerlo in quel modo”.

Aleggiava negli archivi della Questura di Milano l’ immagine di quell’attentato al cinema-teatro Diana compiuto dagli anarchici nel 1922 e quella rivolta del 23 agosto del 1917 quando soprattutto le donne - madri, mogli, fidanzate, sorelle, amiche di soldati al fronte - si erano ribellati alle stragi sulle rive dell’Isonzo, sul Carso, sugli Altipiani e a Torino, Milano, Como, Brescia guidate dagli anarchici, erano salite sulle barricate al canto della Carmagnola che via via modificato dai giorni della Rivoluzione francese, pur mantenendo il ritmo della ballata dei Sanculotti attorno all’Albero della Libertà, sbottava nel grido: “Dinamite ai palazzi ed alle chiese - pugnalate l’odiato borghese”.

Dominava una convinzione: gli anarchici erano quelli che buttavano le bombe nel mucchio. Poi c’era la sentenza americana che il 23 agosto 1927 dopo sette anni di udienze, uccise sulla sedia elettrica Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, due attivisti e anarchici italiani emigrati negli Usa, a tempo indicati come innocenti per una rapina commessa da altri. Con quei ricordi tornati alla memoria con lo scoppio dell’infernale ordigno buttato nel mucchio, la polizia cominciò le indagini. Montanelli fu uno di pochi giornalisti che in quei lunghissimi giorni di dolore, paura, rabbia, sospetti, soprattutto nell’idea di una rivolta armata che aveva spaventato gli italiani, tenne il timone diritto.

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