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Gli ultimi istanti di Mara Cagol e le tante domande rimaste senza risposta

Le immagini in bianco e nero scorrono veloci durante il telegiornale del 5 giungo 1975, e si fermano sulla fotografia di una carta d’identità. E’ il volto di una giovane donna uccisa dai militari dell’Arma.

di Luigi Sardi

Era l’ora di cena in quel 5 giugno del 1975 e anche del Telegiornale. Un costante appuntamento per la famiglia Pilenga. I fratelli Italo, Pierluigi e Caterina imprenditori di Urgnano piccolo ma felice comune nella bergamasca ad una manciata di chilometri dal capoluogo, erano seduti attorno al tavolo, gli occhi distrattamente rivolti, come di consuetudine, al teleschermo.

La sigla, lo speaker, quella voce fredda a narrare uno scontro a fuoco nel cortile della Cascina Spiotta alla periferia di Acqui Terme fra Carabinieri e gente delle Brigate Rosse con morti, feriti e un ostaggio - Vittorio Vallarino Gancia - liberato.

Le immagini in bianco e nero scorrono veloci e si fermano sulla fotografia di una carta d’identità. E’ il volto di una giovane donna uccisa dai militari dell’Arma ed è a questo punto che Italo e Pierluigi e le loro mogli balzano in piedi gridando. Perché quella ragazza dai capelli scuri che giace distesa su un prato è, anzi era, la migliore amica della loro sorella, da mesi divenuta un’ospite quasi fissa e accolta in casa Pilenga con simpatia e affetto.

Scorrono altre immagini, si sente il nome della donna, Vera Perini; lo speaker aggiunge che quella ragazza uccisa era Margherita Cagol, brigatista, moglie di Renato Curcio che aveva liberato dal carcere di Casale Monferrato dopo aver costretto alla resa, mitra in pugno, gli agenti della penitenziaria. Un gesto audace, mai accaduto nella secolare storia delle prigioni italiane in vero con un solo precedente: la mancata evasione da San Vittore, era il 21 aprile del 1946, di quasi 3.000 detenuti. Armati da complici erano insorti con l'obiettivo di compiere un' evasione di massa, sparando contro chiunque cercasse di fermarli. In quel mese d’aprile la guerra era finita da solo un anno e bande di armati di finti partigiani e di reduci della repubblica detta di Salò, quella di Mussolini, pensavano di liberare complici e commilitoni alcuni dei quali condannati a morte.

Una rivolta in piena regola domata da reparti del Regio Esercito. Ma alla prigione di Casale Monferrato Margherita Cagol, la “compagna Mara” si era presentata da sola, aveva suonato il campanello le avevano aperto il portone ed estratto da un borsone un Mab, il fucile automatico Beretta, aveva costretto gli agenti ad aprire la cella dove era rinchiuso suo marito, il fondatore delle Brigate Rosse marito che aveva sposato al Santuario di San Romedio. Mentre la notizia scorre gli uomini di casa Pilenga s’accorgono che la sorella è corsa in camera sua, quella che divideva con Vera, anzi Margherita, anzi Mara la brigatista, meglio ( o peggio ) la fondatrice delle Brigate Rosse che avevano già rapito il giudice Mario Sossi.

Si aprono i cassetti del mobile ceduta alla ospite. Ci sono solo vestiti ed altri oggetti comuni ad ogni donna. Niente armi, volantini, ritagli di giornale, documenti. Per la famiglia Pilenga c’ è un altro angosciante scossone. Il Telegiornale indicando le generalità della donna uccisa, spiega che era nata a Sardagna, sobborgo di Trento, l’ 8 aprile del 1945. E nell’ aprile di quell’anno Giuseppe Pilenga, il padre dei fratelli Pilenga, podestà di Urgnano, quindi iscritto al Fascio, appena finita la guerra si era recato dai Carabinieri per consegnare i documenti del Comune, il danaro della cassa pubblica e la sua pistola perché da Bersagliere poteva conservare l’arma.

Ma sulla scena compare un raggruppamento di partigiani che prendono in consegna il podestà, lo portano al cimitero e lo fucilano. Sarà il piccolo Italo che aveva solo 6 anni a trovare il corpo del papà. Insomma i figli di un fascista ammazzato dai partigiani apprendono da un telegiornale, che hanno ospitato una fondatrice delle Br. Una comunista combattente decisa a scatenare la lotta armata in Italia. Davvero uno scossone.

Da Bersagliere Giuseppe Pilenga aveva combattuto nel 1916 sugli Altipiani dove si era scatenata quell’offensiva passata alla storia come Spedizione Punitiva. Era un mitragliere, specialità in quell’anno ancora rara nel Regio Esercito e così nel settembre del 1917 era stato trasferito in Valsugana, a Telve, con il 72° Reggimento Bersaglieri quello che avrebbe dovuto occupare Carzano in quell’avventura spericolata passata alla storia come il Sogno di Carzano. E proprio in quel borgo Italo Pilenga, il figlio di Giuseppe, servizio militare nelle Fiamme Cremisi e uomo profondamente di destra, aveva raccontato quella vicenda.

Era di sabato quando Caterina si era presentata in casa portando un’amica, appunto Vera, ragazza molto simpatica, riservata, educata, prontissima a dare un mano nelle faccende domestiche. Non usciva quasi mai di casa né telefonava. Non parlava di politica; certo leggeva diversi giornali “ma non l’ho mai vista né con “l’Unità” o “Il manifesto”, sapeva che io e mio fratello eravamo simpatizzati del Duce, sì proprio di Mussolini, che nostro padre era stato ucciso dai partigiani solo perché era stato podestà (l’attuale sindaco) e aveva fatto molto, in quei mesi davvero difficili, per i suoi compaesani. Una volta in casa di amici comuni Vera vide una chitarra, l’accordò e suonò da farci venire i brividi”.

Un settembre, nella consueta giornata di celebrazione del citato “Sogno” - e Italo Pilenga portava a sue spese le fanfare dei Bersaglieri in congedo - a Carzano arrivò con Caterina. Mi raccontò che aveva conosciuto Margherita in un centro di un paese vicino a Monza (ma non me lo volle indicare e si capì che era inutile insistere) dove si assistevano persone bisognose soprattutto tossicodipendenti.

Quasi ogni fine settimana la portava a casa, a Urgnano “dove i miei famigliari l’accoglievano proprio come una di noi, senza far domande perché di lei si fidavano”. Probabilmente sapeva chi era Margherita. Probabilmente aveva incontrato qualcuno che sapeva molto su Cascina Spiotta perché mi disse: “Non era sola. Non è stata lei, era molto religiosa, si era inginocchiata” null’altro aggiungendo.

Da tempo tutti i fratelli Pilenga sono morti; Italo è stato uno fra i primi uccisi dal morbo e da poco si è appreso che l’inchiesta attorno a Cascina Spiotta, su quella tragedia che ha segnato una svolta fra gli uomini delle Brigate Rosse, è stata riaperta per cercare di identificare chi era con Mara nel sequestro di Vittorio Vallarino Gancia - anche lui defunto - proprietario delle nota casa vinicola.

Si voleva chiedere un riscatto per finanziare l’attività terroristica. Appunto nell’ aprile di quell’anno Mara, Curcio e Mario Moretti che oggi ha 80 anni e si era laureato alla Cattolica di Milano, avevano deciso il sequestro dell’industriale portato nella cascina abbandonata, sorvegliato dalla Cagol e da quel brigatista che nuove indagini cercano di identificare.

La mattina del 5 giugno una pattuglia di quattro Carabinieri in perlustrazione sulle colline di Arzello, arriva alla cascina Spiotta. Quando suono alla porta i due terroristi lanciano una bomba a mano Srcm che colpisce il tenente Umberto Rocca. Preso in pieno dallo scoppio, perde un braccio e un occhio mentre il maresciallo Rosario Cattafi, investito dalle schegge, rimane ferito. I due terroristi escono dalla casa sparando; feriscono l'appuntato Giovanni D'Alfonso, che muore in ospedale dopo alcuni giorni di agonia, colpito secondo le testimonianze dei militari superstiti proprio dalla Cagol.

I due terroristi riescono a raggiungere una loro auto, la mettono in moto però investono quella dei Carabinieri parcheggiata in mezzo alla strada. Fingono di arrendersi, ma riprendono a sparare: nel conflitto a fuoco Margherita Cagol rimane uccisa. L'unico a rimanere illeso è l'appuntato Pietro Barberis, mentre l'altro dei due brigatisti, rimasto sconosciuto, riesce a fuggire verso il bosco. Secondo i brigatisti, il fuggitivo avrebbe poi raccontato di aver sentito un ulteriore sparo dopo lo scontro a fuoco, ed in seguito a questo racconto le BR hanno insinuato il dubbio di un'uccisione a freddo, ma non esistono conferme di tutto ciò. Salvo quel “era in ginocchio” raccontato da Caterina.

Che ha fatto nascere una leggenda: aveva alzato le mani e si era inginocchiata in segno di resa quando venne colpita dal militare superstite?

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