Storia / Il racconto

I segreti dell’oro di Fortezza e “l’armadio della vergogna”

Herbert Kappler non era mai stato al fronte, non aveva mai combattuto. La sua carriera militare si era svolta a Roma, negli uffici dell’ Ambasciata germanica per crescere dopo l’8 Settembre del 1943 con l’occupazione tedesca della Capitale dove il 10 settembre, soldati del Regio Esercito abbandonati da quel gruppo di ufficiali fuggiti con Vittorio Emanuele III avevano tentato a Porta San Paolo, una inutile resistenza alla Wehrmacht mentre a Trento in via Maccani, al Palazzo delle Poste, al ponte dei Cavalleggeri e nelle caserme a sud della città si era combattuto accanitamente nella notte fra il’8 e il 9 di quel funesto mese.

A Roma era diventato SS-Obersturmbabbfüher e all’inizio del 1944 comandante del Sicherheitsdienst - la Sd - il servizio di contro spionaggio del Reich. Organizzò i suoi uomini e i fiancheggiatori fascisti, quelli del Reparto speciale di polizia repubblicana, in una macchina di repressione che diventava sempre più feroce man mano che si profilava la sconfitta. Poi Kappler dirà di aver obbedito agli ordini “come deve fare ogni soldato”. Ma era lui ad impartirli cominciando a trasformare un edificio di via Tasso in prigione per interrogare e torturare antifascisti, partigiani, renitenti alla leva ed ebrei.

Subito dopo il successo della liberazione del Duce e la cattura della principessa Mafalda, pianificò il sequestro e il trasporto il Germania dell’intera riserva aurea - 120 tonnellate d’oro – conservata nella sede centrale della Banca d’Italia. L’operazione cominciò nella notte dl 22 settembre. L’oro, ma c’era anche quello asportato dall’Albania, doveva arrivare oltre Brennero: si fermò a Festung Franzensfeste.

Era stato il giornalista Gianni Faustini a dimostrare sul giornale “l’ Adige” che, a guerra finita, l’oro era stato recuperato dagli americani. Scartabellando negli archivi del museo della guerra di Rovereto aveva trovato, e subito pubblicato, le fotografie dei lingotti nelle mani dei militari statunitensi. La vicenda sembrava finita ma nel maggio del 1983 la storia destina a legare la figura di Kappler al tesoro della Banca d’Italia era esplosa con enorme fragore giornalistico nell’inchiesta dell’allora giudice istruttore del tribunale di Trento Carlo Palermo, il magistrato poi scampato all’atroce attentato commesso a Trapani.

Da ricordare che negli anni più cupi della “guerra fredda”, la gigantesca fortezza costruita dall’Austria nel 1830 era stata presidiata - come tutte le altre fortificazioni a ridosso del confine - dalle truppe dell’Esercito destinate a sacrificarsi per rallentare di qualche ora una ipotetica invasione delle armate del Patto di Varsavia. Ovviamente ogni galleria, nicchia, pozzo, pertugio, anfratto era stato ispezionato e così non si spiega come Luigi Cavalloni un imprenditore milanese avesse potuto accedere in quell’agglomerato con una équipe di ricercatori trovando, o meglio affermando di aver trovato, fra il generale stupore, curiosità e sarcasmo di militari e magistrati di Bolzano, un’ ingente massa metallica non ossidata, cioè “l’oro che cerchiamo”. Perché fra storia e leggende l’oro recuperato dagli americani e consegnato alla Banca d’Italia era inferiore, per peso non di chili ma di quintali, a quello sequestrato dai tedeschi. La vicenda si trasformò in una incontenibile frenesia aurifera che incuriosì l’allora direttore del giornale “Alto Adige” Mino Durand e poi la totalità dei giornali. E non solo quelli italiani.

Scrisse il giornalista dell’Ansa di Trento Enrico Goio nella prefazione del libro “Fermate quel giudice” a proposito di Carlo Palermo: “E’ un impasto di provocazione e sanfedismo, ma anche un uomo di grande coraggio, di incoscienza e di umane debolezze che nella sua cavalcata solitaria contro tutto e contro tutti, ha conosciuto sulla sua pelle gli intrighi orditi da personaggi dei servizi segreti presenti fin dal tempo della guerra dei tralicci soprattutto nel Sudtirolo”. Che si erano interessati a quella vicenda – come si legge in molti fax scambiati fra gli ex camerati raccolti in una cartellina denominata “Gold” sequestrata ad Albiate vicino a Milano, nell’abitazione di Hass –  perché il 24 giugno del 1978 alcuni ex ufficiali della Wehrmacht vennero convocati da Karl Hass già maggiore delle SS e divenuto agente segreto degli Stati Uniti. Oggi sappiamo che la Cia arruolò i nazisti più fidati, verrebbe voglia di dire i migliori, e Hass era uno di quelli. Partecipò al piano per liberare Mussolini, a quello per catturare la principessa Mafalda e con Kappler organizzò l’eccidio delle Fosse Ardeatine sparando nella testa di due italiani per “dare l’esempio” ai soldati, almeno a quelli riluttanti a diventare da combattenti in assassini. Come agente al soldo degli americani lavorò per anni in funzione anticomunista sia in Italia che in altre nazioni dell’Europa. Del resto le SS avevano dimostrato di sapere cosa si doveva fare con russi e comunisti da Stalingrado a Roma. E Kass si poteva davvero considerare un “esperto”.

Così era stato reclutato il 15 dicembre del 1947 dal colonnello statunitense Joseph Peter Luongo direttore del “Counter Intelligence Corps” che, secondo un’ incerta informazione, aveva sede a Bolzano, la prima città italiana a sud del Brennero, il valico che da un momento all’altro poteva venire attraversato dall’ Arma Rossa. Poi per l’intervento del Ministero degli Interni fortemente impegnato nella campagna elettorale dell’aprile del 1948 per contenere il Fronte Democratico Popolare, l’ex ufficiale delle SS munito di documenti falsi venne trasferito a Roma dove entrò in contatto con l’estrema destra italiana formata da fascisti di provata fede, come si diceva in quell’ epoca, e con personaggi dei servizi segreti statunitensi spiccatamente anticomunisti. Il piano era chiaro: se la sinistra avesse vinto nelle famose elezioni del Quarantotto sarebbero stati occupati i principali edifici pubblici della Capitale come preludio ad uno scontro armato con i rossi.

Hass doveva essere molto apprezzato dagli americani se all’inizio degli anni Cinquanta si trasferì, o venne trasferito, a Salisburgo o meglio, operò nella “Radio Free Europe” – la televisione era di là da venire e la radio era il mezzo di informazione più importante – “occupandosi della preparazione di agenti tedeschi presso una scuola di spionaggio statunitense anch'essa sita in Austria”, come si legge in almeno due fonti di informazione.

Di certo c’ è che nel 1953 decise di farsi passare per morto. I responsabili delle stragi naziste erano stati informati che gli israeliani erano sulle loro tracce. Il Mossad non rispondeva – e forse non risponde ancora – a nessuna autorità e dal dicembre del 1949 era impegnato in operazioni simili a quella denominata “l’ira di Dio” che decimò gli organizzatori della strage di Monaco di Baviera durante le Olimpiadi del 1972. Gli ebrei dello Stato di Israele avevano deciso di eliminare quei nazisti assassini dei loro correligionari. Quindi era meglio sparire definitivamente grazie ad un certificato di morte, falso, emesso dalle competenti e consenzienti autorità della Repubblica Federale Tedesca, quella di Bonn. Una “morte provvidenziale” perché nel 1962 il tribunale militare di Roma emise una sentenza di non luogo a procedere per 11 persone coinvolte nell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Fra quei personaggi si trova anche Hass indicato irrintracciabile anche se viveva in Italia visto che comparve in divisa di militare delle SS nel film “La Caduta degli Dei” di Luchino Visconti.

Morto per certificato, ma ben vivo dopo la notte del Sacro Cuore, la famosa notte dei fuochi del giugno del 1961 nel Sudtirolo. Hass venne incaricato di compiere una non meglio specificata attività informativa attorno a Bolzano. Compito affidatogli da funzionari del Ministero dell’Interno. Insomma l’ ex SS doveva indagare su quel capitolo chiamato “terrorismo altoatesino”. L’ incarico venne approvato da funzionari del Ministero: Gesualdo Barletta ed Ulderico Caputo.

Da ricordare che nel 1946 con la nascita della Repubblica era stato  creato il Servizio informazioni speciali e il suo primo direttore, proveniente dall’Ovra. era proprio Barletta assunto dal Ministro degli Interni,  l’ingegnere e socialista Giuseppe Romita protagonista della rivolta del pane dell’agosto del 1917 a Torino. Barletta definito un investigatore molto capace venne confermato in quel ruolo dal Ministro dell’Interno, il democristiano Mario Scelba che sul finire dell’ ottobre dl 1948 istituì la Divisione Affari Riservati. Da ricordare che l’Ovra – sigla di “Opera Volontaria di Repressione Antifascista” ma anche “Organizzazione di Vigilanza e Repressione dell’Antifascismo “e “Organo di Vigilanza dei Reati Antistatali”, è stata la polizia segreta dell'Italia fascista dal 1927 al 1943 e nella Repubblica Sociale Italiana dal 1943 al 1945. Barletta si fece intervistare, ma non fotografare, nell’ Ufficio Politico della Questura di Trento che all’ epoca si apriva nell’edificio ora in disuso di Piazza della Mostra.

Dal canto suo Ulderico Caputo guidò l’ufficio Affari Riservati che aveva sede al Viminale dal novembre del 1959 fino al marzo del 1961 per cedere l’incarico ad Efisio Ortona. Era l’epoca del Sifar e del generale Giovanni De Lorenzo che organizzò una enorme opera di schedature di personaggi della politica, dell’economia, dei sindaci, dell’imprenditoria e del giornalismo. Furono 157.000 fascicoli, un capitolo immenso raccontato dal giornalista Indro Montanelli. Per quello che riguarda il Sudtirolo, l’ufficio diretto da Caputo si concentrò sui componenti della “Organisation armée secrète”, la Oas, e sui nuclei speciali dell’esercito francese che, appunto nel Sudtirolo, in quegli anni territorio di “esercitazioni a mano armata”, si davano una caccia spietata.

Era stato il capitano Amos Spiazzi di Corte Regia comandante dei Nuclei Antisabotaggio a narrare al procuratore della Repubblica di Trento Francesco Simeoni e poi al giudice istruttore Antonio Crea di essere stato attaccato con i suoi militari da un gruppo di armati poi spariti nella boscaglia. Narrò anche di aver trovato sul terreno solo bossoli di armi di fabbricazione francese e un pacchetto, vuoto, di sigarette Gauloises. Come si legge in una intervista fatta sui corridoi di Palazzo di Giustizia dal giornalista de l’ Adige Sandro Moser al citato ufficiale. Sarebbe davvero interessante che dopo sessant’ anni si cominciassero ad aprire gli archivi, magari quelli di Forte Braschi, la sede storica da almeno un secolo della intelligence italiana. Si dice che fra quelle impenetrabili stanze, siano custoditi i documenti più segreti dei misteri della Repubblica. Misteri evidentemente inconfessabili. 

Il nome di Hass sbucò appunto nel 1983 quando il giudice Carlo Palermo lo indagò per la sparizione di una parte dell’oro occultato a Franzensfeste. Si brancola nel buio, come si diceva un tempo di fronte a casi giudiziari all’apparenza irrisolvibili e molta è leggenda. Si dice che durante il trasporto del tesoro della Banca d’ Italia da Milano alla Germania, prima di arrivare nell’antica fortezza asburgica due vagoni merci attraversarono la frontiera di Chiasso per raggiungere la Svizzera e una banca importante e sicura. Si ipotizza che i vertici delle SS, pur sorretti dalla granitica certezza nella vittoria finale, si fossero preparati a fuggire in Siria, Argentina, Cile, Paraguay, Egitto grazie all’oro depredato nell’Europa occupata. Certo, erano criminali però molto intelligenti e i sottomarini erano i battelli più adatti per portare oltre Oceano i capitali indispensabili per creare rifugi sicuri, confortevoli, duraturi. Certo, si scoprirono quelli approdati sulle coste argentine a guerra finita ma nulla si potrà sapere attorno agli U-boot della  Kriegsmarine giunti nell’autunno del 1944 – questa è una ipotesi ricorrente – sulle coste argentine dove sbarcarono i capitali necessari per la sopravvivenza lontano dalle macerie del Reich millenario.

Nel 1947 Evita Peron arrivò in Europa. Visitò l’Italia, andò in Germania, tornò a Roma e poi si recò in Svizzera dove aprì trecento conti correnti. Magari la cifra non è esatta; forse alcuni di quegli atti bancari erano a disposizione di eminenti figure del Reich sopravvissuti al crollo del nazismo, alla guerra e alle forche di Norimberga. Queste notizie – e forse alcune vennero fatte circolare con abilità per far naufragare l’inchiesta del giudice Palermo – si infittirono mano mano che ci si addentrava nelle indagini sul citato oro e sulla fuga di Kappler dall’ ospedale militare del Celio. Un frastuono? Un polverone? Depistaggi? Può essere. Però queste notizie attraversarono l’epoca dell’inchiesta che aveva costantemente titoloni sulle prime pagine del giornali. Con una certezza. Hass, dichiarato defunto dal Governo di Bonn viveva con il suo vero nome ad Albiate, presente nell’elenco telefonico, domiciliato in via Antono Gramsci numero 9. E rispondeva al telefono con voce chiara e forte interrompendo la comunicazione alla parola “sono un giornalista”. In Italia aveva vissuto, indisturbato, per decenni.

Si tornò a parlare di lui nel processo che vide come imputato Erich Priebke, il tragico contabile delle Ardeatine. Era l'estate del 1996 quando gli agenti della Digos di Milano andarono ad Albiate: dovevano scortarlo a Roma chiamato a testimoniare al processo per l’eccidio, ma tre ore prima dell’ arrivo della Polizia, evidentemente avvertito, aveva lasciato la sua abitazione e attraversato il vicino confine di Chiasso si era recato a Ginevra  nella casa della figlia. E documentato che dalla Svizzera condusse una lunga trattativa con la Procura militare. Poi decise di tornare in Italia per deporre al processo contro Priebke.
Inspiegabilmente il giorno prima di presentarsi come teste di fronte a giudice  Agostino Quistelli, l’ex agente dei servizi segreti americani tentò di fuggire calandosi dalla finestra dell'albergo dove era alloggiato. Cascò, si ferì seriamente, venne ricoverato in un ospedale. Si indagò attorno a quell’episodio davvero molto strano o meglio, molto inquietante di un testimone che prima espatria per non andare a deporre, poi decide di testimoniare, quindi alla vigilia dell’atto giudiziario, cerca maldestramente di fuggire.

Si apre un’inchiesta, il procuratore militare Antonino Intelisano lo rinvia a giudizio per concorso nella orrenda strage. Sarà condannato all’ergastolo, sentenza resa definitiva dalla suprema Corte di Cassazione. Karl Hass è morto all'età di 91 anni, il 21 aprile 2004 mentre scontava l'ergastolo agli arresti domiciliari presso la casa di riposo Garden di Castel Gandolfo, ove era ospitato in considerazione dell'età avanzata e delle precarie condizioni di salute. È sepolto nel cimitero comunale della citata località.

Ma ecco la figura di Intelisano divenuto nel 2010 procuratore generale militare presso la Corte suprema di Cassazione e dopo essere stato componente di diritto del Consiglio della Magistratura Militare. Ha cessato di svolgere la funzione il 31 dicembre del 2016 dopo aver insegnato diritto e procedura penale presso l’ Università La Sapienza di Roma. Una carriera di tutto rispetto per un uomo che è stato il pubblico accusatore nel processo a Priebke e che nel 1994 aveva scoperto il cosiddetto “armadio della vergogna”. Mentre si occupava dell’istruttoria attorno a Priebke, rinvenne in uno sgabuzzino della cancelleria della procura militare a Palazzo dei Cesi-Gaddi in quel di Roma un armadio rimasto per anni con le ante rivolte verso il muro, nel quale c'erano documenti "archiviati provvisoriamente" decine di anni prima. Tra i fascicoli ritrovati c’ era anche un promemoria prodotto dal comando dello “Special Operations Executive” dal titolo “Atrocities in Italy” con stampigliato il timbro “secret”, frutto della raccolta delle testimonianze e dei risultati dei primi accertamenti effettuati sui casi di violenze da parte dei nazifascisti, consegnato al termine della guerra, dagli inglesi alla magistratura di Roma.

Franco Giustolisi, eminente giornalista, firma storica dell’ “Espresso”, fu il primo a parlare dei fascicoli nascosti e che contengono dati sugli ecidi compiuti dai nazifascisti, da Marzabotto a Sant’ Anna di Stazzema. Con Alessandro De Feo denunciò il ritrovamento dei fascicoli e l’insabbiamento di molte inchieste in diverse pubblicazioni dai titoli “Una, cento, mille Ardeatine” poi “Cinquant'anni di insabbiamenti” per arrivare il 9 novembre del 2000 all'articolo “L'Armadio della vergogna”.

Ci fu, naturalmente, una commissione parlamentare di inchiesta con le audizioni di Giulio Andreotti e di Oscar Luigi Scalfaro che era stato Presidente della Repubblica. L’assise parlamentare raccolse 80.000 documenti, e protrasse i lavori dal 2003 al 2006.:.

Riassumendo. Grazie alla lettura dei fascicoli si accertò l’esistenza della cosiddetta “pista atlantica”, secondo cui i processi contro i responsabili tedeschi sarebbero stati fermati “per mantenere buoni rapporti con la Repubblica Federale di Germania Ovest che nel periodo della guerra fredda stava assumendo un ruolo di argine all'avanzata culturale, politica e militare dell’ Unione Sovietica”. Si scoprì la “pista jugoslava” che avrebbe fatto prevalere “una linea di insabbiamento nei confronti degli imputati tedeschi, per salvare quegli italiani accusati di violenze in Albania,Jugoslavia, Grercia ed Etiopia” per arrivare al capitolo dei servizi segreti scoprendo il legame fra la concessione dell’impunità e l’attività svolta da nazisti e da alcuni fascisti in favore dei servizi segreti dell’Occidente. La commissione parlamentare ha anche indicato il numero del fascicoli trovati nell’armadio collocato “in un ammezzato di Palazzo Cesi-Gaddi” collocati “su una scaffalatura; ha anche stabilito che 260 fascicoli vennero inviati ai tribunali ordinari: il destino di altri 695 fascicoli venne chiuso nel 1960 con il dispositivo di archiviazione provvisoria  e altri 1250 fascicoli vennero inviati alle varie procure militari territorialmente competenti.

Magari è una leggenda, ma visto l’andazzo potrebbe anche essere vero. Le ante dell’’ armadio evidentemente per un difetto di serratura, si aprivano intralciando il passaggio sul corridoio. Così venne girato probabilmente per decisione di un usciere e addossato alla parete. In quel modo le ante rimasero chiuse. Per decenni.

(11, continua)

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