Penso spesso al ragazzo con le scope

Penso spesso al ragazzo con le scope

di Eliana Agata Marchese

Penso spesso al ragazzo con le scope: il virus colpisce tutti, ma gli ultimi ne subiscono le conseguenze per primi. A casa nostra, ogni due settimane, bussava un venditore ambulante magrebino, con un sacco di plastica in mano e una decine di scope sulla spalla. Per un periodo era passato ai tappeti, ma ero riuscita a non farmene dare neanche uno.

Con le scope non c'era verso: il mio amico non voleva denaro in regalo, e quindi abbiamo la casa piena di scope. A Natale, invece, si era presentato con tre pupazzetti luminosi: «Per i tuoi bambini» mi aveva detto, sorridendo dietro gli occhiali. Non so esattamente dove abiti, non ho un indirizzo, non posso aiutarlo. E pensare che per i miei figli era quasi un amico di famiglia.

Quando lo vedevano dal balcone correvano fuori per salutarlo. Luciano si faceva prendere in braccio, insieme al sacco e le scope. Abbiamo condiviso ore di chiacchiere: la tristezza della solitudine quando la sua famiglia era ancora in Africa: «Non ce la faccio più a stare senza di loro» ripeteva. La gioia quando finalmente sono arrivati, la moglie giovane e quattro figli, tutti a scuola, dal primo all'ultimo. «Lo sai - mi raccontava una delle ultime volte che ci siamo visti - la maestra ha chiesto ai bambini di disegnare la classe, e nessuno ha dimenticato mio figlio. Fa parte anche lui del gruppo; siamo stati accolti in Italia, stiamo bene, sono felice. Sai, riesco perfino a comprare il gelato e metterlo in freezer per tutti». Chissà come sta adesso, il ragazzo con le scope. Chissà se gli hanno assegnato l'alloggio agevolato per cui avevamo incrociato le dita insieme: «Io ci spero - diceva - ma la graduatoria degli stranieri è sempre molto affollata, e ci sono pochi posti».

Mi auguro che la quarantena abbia colto lui e i suoi figli nella casa nuova, perché quella vecchia era in un maso sperduto, riscaldamento a legna e una strada d'accesso terribile. Non il luogo migliore dove rimanere chiusi per mesi, senza relazioni e senza Wi-Fi. Spero che i compagni di classe non si siano dimenticati di quel bambino che avevano disegnato, perché a casa del ragazzo con le scope non credo che arrivino le lezioni in streaming. Il virus colpisce tutti, è democratico, ma la scuola a distanza non lo è. Non tutti i bambini hanno un computer, una connessione, una mamma in grado di seguirli. La giovane moglie magrebina probabilmente non ha i mezzi. La scuola vera, però, al momento sembra l'ultima delle preoccupazioni; e non è in agenda per nessuno, figuriamoci per i figli del ragazzo con le scope.

La sua piccola, in prima elementare, sapeva già leggere e scrivere in italiano. «È intelligentissima» diceva orgoglioso il papà. La mamma sarà riuscita ad andare in segreteria, compilare un modulo, richiedere un tablet? Sugli ultimi, sui migranti, nessuno ha mai detto nulla, salvo sporadiche assurde accuse di importazione del virus (e invece a contagiarli siamo stati noi). Ce ne ricorderemo, forse, quando avremo bisogno di braccia per l'agricoltura. A quel punto chissà quanti bambini avranno disimparato a leggere, saranno rimasti senza amici. Privati della scuola, che non solo assolve la fondamentale funzione di istruire, ma anche quella di integrare, di favorire le amicizie, di mescolare i colori e farne dimenticare la differenza. Equa con tutti, attenta ad ognuno. Chissà in quanti, nel tempo della clausura, sono diventati invisibili perché non hanno un computer in casa.

Ce ne ricorderemo fra qualche anno, per fingere stupore quando questi bambini e adolescenti saranno adulti in difficoltà. Ci renderemo conto, forse, di quanto a lungo sia mancata la scuola uguale per tutti.

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