Il sequestro Moro/23

Il sequestro Moro/23

di Luigi Sardi

E’ Anna Laura Braghetti la carceriera di Moro a raccontare come il prigioniero reagì quando gli venne comunicata la sentenza del “tribunale del popolo”, quel “Aldo Moro è colpevole e viene pertanto condannato a morte”. Racconta la donna che oggi ha 67 anni. “Ne fu sconvolto. Rimandò indietro il vassoio delle pietanze senza toccarlo, trattenendo solo l’ acqua da bere. Ci odiava, non voleva accettare nulla da noi. Per due giorni serbò un silenzio assoluto. Leggeva solo la Bibbia. Poi nella sua cella ricavata dietro la libreria”, un buco largo novanta centimetri e lungo due metri, “riprese a scrivere, alla sua famiglia, agli amici. Noi non ci affrettammo a consegnare… aspettavamo che riprendesse la sua battaglia, scrivendo ai politici. Sedeva sul letto, un taccuino sulle ginocchia e scriveva, scriveva sempre”. Gli venne detto: “Scriva presidente, scriva quello che vuole, anche un libro” e la Braghetti aggiunge; “Io scorsi appena quegli ultimi scritti. Non sopportavo di leggerli… mi vennero alla mente le lettere dei condannati a morte durante la Resistenza”.

Appena portato in via Montalcini 8, interno 1 nella “prigione del popolo” – non venne mai spostato come s’affannano a raccontare  i cercatori di cose sensazionali –  il brigatista Mario Moretti gli disse subito che “sarebbe iniziata una trattativa per la sua liberazione, esito al quale il partito armato era interessato quanto lui”. Perché proprio “durante il sequestro Moro maturò  l’idea di interrompere la guerra e ritrovare lo spazio per fare politica senza fucile… [l’idea] era nella testa dei capi brigatisti. Il riconoscimento da parte dello Stato e della Dc di un problema politico, avrebbe imposto un altolà e le armi avrebbero potuto anche tacere”. Per Curcio e Franceschini,  la prospettiva di uscire  di galera in seguito ad uno scambio di prigionieri “era loro assai gradita e per questo fino all’ultimo condivisero la speranza che tutto si concludesse per il meglio”.

Anna Laura Braghetti è la donna che affittò e visse nell’appartamento divenuto braccio della morte. Con il suo vero nome lavorava in un ufficio, incontrò per caso Roberto Benigni in un bar di Roma, faceva la vita di una tranquilla, appartata casalinga: casa, ufficio, scarsissime relazioni. Dopo l’uccisione di Moro entrerà nella clandestinità. Lei il 12 febbraio del 1980 uccise Vittorio Bachelet il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura al termine di una lezione alla facoltà di scienze politiche. “Era un bersaglio facilissimo” fulminato con 11 colpi esplosi da una pistola bifilare 7.65 con silenziatore.

Testimone dell’eccidio Rosy Bindi (negli anni successivi diventerà Ministro della Sanità). Lei organizzò l’’uccisione del giudice Gustavo Minervi, assassinato a Roma su un autobus e sempre a Roma, in piazza Nicosia partecipò all’eccidio di due poliziotti Antonio Mea e Pietro Ollanu. Resterà nella memoria – sempre più incerta – il funerale di Bachelet, nella chiesa di San Romedio Bellarmino. Giovanni, uno dei figli durante la preghiera, disse: “Preghiamo per i nostri governanti: per il nostro presidente Sandro Pertini, per Francesco Cossiga. Preghiamo per tutti i giudici, per tutti i poliziotti, i carabinieri, gli agenti di custodia, per quanti oggi nelle diverse responsabilità, nella società, nel Parlamento, nelle strade continuano in prima fila la battaglia per la democrazia con coraggio e amore. Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono, mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri”.

In quei 55 giorni di agonia del presidente della Dc ci si è chiesti, più volte, perché Moro non abbia mai accennato agli uomini della scorta trucidati. Lo ha fatto una volta, nella prima lettera a Zaccagnini. “E’ doveroso aggiungere, in questo momento supremo, che se la scorta non fosse stata, per ragioni amministrative, del tutto al di sotto delle esigenze della situazione, io forse non sarei qui”. Arrivò il 30 aprile la perizia balistica. Emergono alcuni dati. I terroristi colsero di sorpresa e annientarono a colpi di armi da fuoco gli uomini, dei quali due seduti al volante delle due auto. Spararono dall’alto verso il basso; il successo degli assalitori non fu dovuto all’apporto di inesistenti superkiller, bensì all’effetto sorpresa e all’inefficacia della reazione opposta dagli agenti di scorta. Non tenevano le armi in pugno, ma chiuse all’interno di involucri messi sotto ai piedi e in un vano porta oggetti. Un mitra era – ma questo non compare nella perizia – nel bagagliaio dell’auto di scorta. I periti balistici spiegano che l’azione di attacco in via Fani è abbastanza simile a quella attuata in Germania dal gruppo di fuoco della Rote Armee Fraktion che rapì Hanns Martin Schleyer, ai vertici dell’industria della Germania dell’Ovest  e che durante la guerra era stato maggiore delle “ss”; forse, più di Moro, aveva dato qualche consiglio militare ai “gorilla” che lo dovevano proteggere.

Risposero con 11 proiettili ai 101 piovuti su di loro; i difensori  morirono tutti, i terroristi non subirono perdite e portarono via l’ostaggio.
I proiettili che andarono a segno contro la scorta di Moro furono 45 sui 91 e ben 17 furono sparati da brevissima distanza… chiunque avrebbe fatto centro da così vicino… i terroristi al momento degli spari erano posizionati a pochi centimetri dagli sportelli delle automobili bloccate da un tamponamento alle quali si avvicinarono vestiti con le divine dell’Alitalia, “sicché non fu strano né prodigioso che Moro, seduto sul sedile posteriore intento a leggere i giornali, sia rimasto illeso. Piuttosto andrebbe valorizzato il gesto di generosità di Leonardi il cui cadavere, giacente sul sedile anteriore, rimase voltato sul fianco. Con ogni probabilità il fedele capo scorta aveva assunto, d’istinto, quella posizione per fare da scudo al presidente”.
Quelli delle Br non presero mai parte alle azioni della Raf che incontrarono a Parigi l’anno successivo al delitto Moro. E quelli della Raf non erano in via Fani, né c’erano tiratori scelti, killer della Cia, del Mossad, dei palestinesi, del Kgb. I terroristi – tutti italiani, senza un servizio militare alle spalle ( uno di loro aveva fatto la naja in fureria) –  appoggiarono le canne delle armi ai finestrini uccidendo Oreste Leonardi e Domenico Ricci da 20 anni autista del presidente e mitragliarono l’auto di scorta. Da tempo si discuteva sulla necessità di dotare le scorte di veicoli blindati. Dopo la strage si discusse con maggior veemenza per stabilire,  lo si legge in una nota stenografica del dibattito parlamentare,  che “… contro le pistole la macchina di carta della burocrazia non si era ancora messa in moto”. Insomma una tipica storia italiana.

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