Maggiore età senza poter far festa

Maggiore età senza poter far festa

di Eliana Agata Marchese

Maggiore età, e non poterla festeggiare. È un momento di passaggio, come il primo giorno di scuola (che forse questo settembre non avverrà) o la maturità (che quest'anno probabilmente sarà zoppa). Per un adulto sono riti ormai sfocati.

Compreso l'arrivo nel mondo dei "grandi", di cui forse vediamo più i doveri che i diritti. Ma un adolescente vede il voto in cabina elettorale, la patente, le giustificazioni a scuola con la propria firma (su questo personalmente sono contraria, ma tale è la norma). Vede la libertà. E quindi festeggia. Peccato solo che nel 2020 la parola libertà non corrisponda al concetto, e che gli assembramenti di compleanno rientrino nella numerosa categoria dei divieti. Quest'anno tra le mie classi ci sono ben tre quarte; quindi, per la maggioranza dei miei studenti (salvo incidenti di percorso negli anni precedenti) l'anno del fatidico "diciottesimo" è questo.

Secondo collegamento della giornata, lezione di latino. Capisco subito che la classe è frizzante. Compare a tutto schermo il viso di un alunno, taglio fresco ai capelli e sorriso largo così: «Ieri - annuncia - ho compiuto diciotto anni». Non lo sapevo. Auguri! In classe i compleanni si festeggiano. C'è perfino qualche collega che fa portare vassoi di krapfen e spiega il valore dei riti di passaggio: gli adulti non dovrebbero dimenticarli, perché nella vita contano, eccome. Io, che non ho aspirazioni da antropologa, lascio semplicemente girare per i banchi le buste di cioccolatini. Ho l'abitudine di prenderne uno e conservarlo in borsa per la fine della mattinata.

In streaming, ovviamente, niente movimenti di dolci. E chissà quando torneremo a scambiarci un pacchetto di caramelle senza pensare a terribili conseguenze. Ma almeno - chiedo al neo-maggiorenne - i tuoi compagni ti hanno fatto gli auguri? «Certo, prof - risponde al volo un altro ragazzo - anche se non li meritava». Partono le risate. Non è il solo, questo studente, ad aver compiuto gli anni in quarantena. I festeggiamenti non sono paragonabili a quelli che si farebbero in libertà, ma le mamme si sono date da fare. Per ogni classe ho aperto una stanza virtuale di scrittura creativa, che usiamo per documentare la clausura. I ragazzi inseriscono testi, ma anche video e immagini.

Ci sono i loro fratelli, l'orto, i tentativi di trovare uno spazio tutto per sé. Non mancano le foto di torte e candeline. C'è chi si è perfino reso conto di essere fortunato: ha ricevuto un dolce dai genitori, la telefonata della fidanzata, una piccola sorpresa dai compagni di classe; cosa si può volere di più? Nulla, in effetti, soprattutto adesso. In video, all'improvviso, entra un ragazzo che non conosco. Per un attimo penso che troppe ore al computer mi abbiano dato alla testa, ma poi mi arriva la risposta in cuffia: «Non si preoccupi, prof, tutto sotto controllo; è mio fratello». Ottimo. Ci mancava solo l'adesione in pacchetto-famiglia. Cerco di contenere l'eccitazione della maggiore età e vado avanti con la lettura di Orazio, che parla della propria infanzia e ringrazia il padre per avergli permesso di studiare. Nell'antichità la scuola era ben diversa da oggi.

Non c'erano i monitor (ma di quelli vorremmo poter ridurre l'uso anche noi) e le punizioni corporali erano all'ordine del giorno. «Prof, ma allora chissà quante botte avremmo preso…». A questo punto rido anch'io. Come farei, ragazzi, senza di voi? «Dovrebbe plasmarci nell'argilla, come fece Prometeo con l'uomo». Rido ancor più forte: hanno ragione.

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