Il sequestro Moro/21

Il sequestro Moro/21

di Luigi Sardi

E’ la lettera della disperazione, quella del condannato a morte che accusa quanti, potendolo fare, non lo hanno salvato. E fra questi, oltre agli amici di partito – che chiaramente non sono più tali – c’è anche il Santo Padre. Forse Aldo Moro si può aggiungere alle vittime della Resistenza, quella guerra di popolo tradita dalle urne del 18 aprile 1948. Quella lettera era arrivata la sera del 27 aprile al giornale “Il Messaggero” ed è il terribile atto di accusa di un uomo al quale i brigatisti hanno detto con chiarezza che lo volevano uccidere, ma lo avrebbero graziato solo se ci fosse stato un simbolico gesto del Governo.

Il giorno prima Bettino Craxi si era incontrato con Benigno Zaccagnini. Il segretario del Psi aveva proposto al segretario della Dc di graziare tre terroristi non condannati per reati di sangue ed eliminare la carceri speciali divenuti, soprattutto quella dell’Asinara, autentici, terribili Lager. Craxi pensava che si potesse salvare Moro, era convinto che era inumano vedere uccidere un uomo per un’astratta ragione di Stato e aveva proposto lo scambio del prigioniero con qualche terrorista detenuto, una figura di secondo piano, per compiere un gesto simbolico. Scrisse sulle pagine di “la Repubblica” Giampaolo Pansa autore del libro “Il sangue dei vinti” dove racconta le giornate di partigiani ma anche di altri individui che si dichiararono combattenti, ma erano briganti, “che per alcuni dirigenti della Dc il dilemma non è soltanto politico, ma un rebus astratto da risolvere alla luce della ragion di Stato o di partito. Zaccagnini è amico di Moro da sempre. Anche giovani democristiani sono legati al leader rapito da un affetto profondo. Per considerare il problema con un  occhio freddo, essi debbono far violenza anche alla loro storia di uomini, ad un passato di incontri, di confidenze, di aiuto reciproco. Si spiega in questo modo lo stress di alcuni esponenti di partito. Ed è inevitabile che, di fronte al dilemma cedere o non cedere al ricatto, le parti risultino talvolta curiosamente rovesciate. Si sa, ad esempio, che l’interlocutore principale della Dc, il partito comunista, è contrario ad ogni trattativa con le Br”. Che a Roma, in quei giorni delicati e super blindati, ferirono a revolverate il dirigente della Dc Girolamo Mechelli.

Si intuì – o si pensò di intuire – che Craxi avesse scelto la via della trattativa anche per distinguere il suo partito stretto – anzi schiacciato – fra democristiani e comunisti perché quella era l’epoca che vedeva il segretario del Psi crescere sulla scena della politica nazionale. Poi crollerà quando chiamò “mariuolo” il noto dirigente del Pio Albergo Trivulzio in quel di Milano, travolto dalla giostra delle tangenti.

Ma è la lettera di Moro – forse una delle più lunghe – che gela quanti la lessero. “Manca al partito, al suo segretario, ai suoi esponenti il coraggio civile di aprire un dibattito sul tema della salvezza della mia vita. E’ vero, io sono prigioniero e non sono in uno stato d’animo lieto. Ma non ho subito nessuna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, un altro e non merito di essere preso sul serio”. Moro ha saputo che gli “amici” affermano di non riconoscerlo nelle lettere che scrive e lui ribatte: “E devo dire che mi ha profondamente rattristato (non lo avrei mai creduto possibile) che alcuni amici, da monsignor Zama, all’avvocato Veronese, a Giovan Battista Scaglia già ministro nel Governo Moro, senza né conoscere né immaginare la mia sofferenza, abbiano dubitato dell’autenticità di quello che andavo sostenendo”.

Poi rimarca di aver sostenuto, fin dall’inizio “e come ho dimostrato molti anni fa, che ritenevo accettabile, come avviene in guerra, uno scambio di prigionieri politici. E tanto più quando, non scambiando, taluno resta in grave sofferenza, ma vivo, e l’altro viene ucciso”. Dunque sapeva che lo avrebbero ucciso se “taluno” –  e quel pronome può significare una sola persona (ecco la proposta dello scambio fra Moro e un brigatista) – restava in carcere. Il prigioniero aveva ripetutamente espresso quel concetto anche tentando di convince il Papa quando scrisse: “In concreto lo scambio giova non solo a chi è dall’altra parte, ma anche chi rischia l’uccisione, alla parte non combattente, in sostanza all’uomo comune come me” per aggiungere: “E’ una cosa orribile, indegna della S. Sede. Non so se il cardinale Poletti può rettificare – il riferimento è all’articolo dell’Osservatore Romano che invitava a non credere a cosa scriveva dalla prigione del popolo – questa enormità”. E ancora: “Da cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina, se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, a compenso, un’ altra persona va, invece che in prigione, in esilio”. Poi torna a parlare dei palestinesi liberati e portati in Libia con il famoso volo del Dakota Argo 16 poi fatto esplodere dal Mossad a Marghera, “per parare la grave minaccia di ritorsioni e rappresaglie capaci di arrecare danno rilevante alla comunità”.

E c’è l’accusa alla Dc che “mi condanna a morte… arroccata sui suoi discutibili principi”. La lettera di Moro si scaglia contro Flaminio Piccoli con questa frase che molti giornali non pubblicarono. “E che dire dell’onorevole Piccoli, il quale ha dichiarato, secondo quanto leggo da qualche parte, che se io mi trovassi al suo posto per così dire libero, comodo, a Piazza, ad esempio, del Gesù, direi le cose che egli dice e non quelle che dico stando qui. Se la situazione non fosse (e mi limito nel dire) così difficile, così drammatica quale essa è, vorrei ben vedere che cosa direbbe al mio posto l’onorevole Piccoli”. Infine si rivolge a Craxi con un “chiedo a Craxi se questo è giusto. Chiedo al mio partito, ai tanti fedelissimi delle ore liete, se questo è ammissibile…” per arrivare alla frase che gli italiani di 42 anni fa lessero, magari rilessero, la commentarono al bar, nelle fabbriche, nelle scuole senza nulla intraprendere come se fosse ammissibile leggere quel “Muoio, se così deciderà il mio partito, nella pienezza della mia fede cristiana e nell’amore immenso per la mia famiglia”. Moro aveva già deciso di togliersi dal partito e conclude la lettera con un “ma questo bagno di sangue non andrà bene né per Zaccagnini, né per Andreotti, né per la Dc, né per il Paese”. Poi un cenno al futuro funerale: “Io non desidero intorno a me, lo ripeto, gli uomini di potere…”.

Per prima volta Moro scrive la parola “potere” dopo aver parlato, nelle precedenti lettere di “uomini partito”, di “onorevoli”, di “autorità dello Stato”.
Scrisse Leonardo Sciascia in un impietoso articolo pubblicato da “la Repubblica”: “Per il potere e del potere era vissuto fino alle 9 del mattino di quel 16 marzo. Ha sperato di averne ancora: forse per tornare ad assumerlo pienamente, certamente per evitare di affrontare quella morte. Ma ora sa che l’hanno gli altri, riconosce negli altri il volto laido, stupido, feroce. Negli amici, nei fedelissimi delle ore liete. Le macabre, oscene  ore liete del potere, lui che non ha mai avuto letizia del potere”. Tutto questa accadeva meno di mezzo secolo fa, nella Repubblica nata dalla Resistenza.

(21. Continua)

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