Il sequestro Moro/19

Il sequestro Moro/19

di Luigi Sardi

Era stato Moro dalla “prigione del popolo” a scrivere a Paolo VI per sollecitare il suo intervento nella trattativa strisciante fra le Brigate Rosse e lo Stato. Aveva preparato una breve lettera con l’ovvio assenso dei brigatiti-carcerieri che avevano ideato la strage di Via Fani per poter barattare il Presidente-ostaggio con  tredici “prigionieri comunisti” che se liberati, avrebbero preso la via di Cuba. La lettera diretta al Pontefice venne recapitata dalle Br alla moglie del prigioniero da un sacerdote, don Antonello Mennini.

Appunto attorno a quella missiva si aprì un segreto, lungo quanto inconcludente dibattito. Comunque si stabilì che “costituisce una forzatura dire che Moro scrivesse le sue lettere sotto dettatura dei carcerieri” mentre è ovvio ritenere che questi non si limitassero a trasmettere, senza il loro totale consenso, tutto quello che il prigioniero scriveva. E’ possibile pensare ad una sorta di intesa: il prigioniero scriveva per allungare i tempi sperando in un sempre possibile successo delle forse dell’ordine, comunque per ritardare o scongiurare l’ esecuzione della sentenza e i brigatisti lo favorivano per il loro scopo: lo scambio di prigionieri, vera ragione del rapimento. Se avessero voluto ucciderlo, lo avrebbero fatto nella mattanza di Via Fani. Quel prenderlo prigioniero serviva solo per una trattativa. Don Mennini riceve la lettera, per posta, da un “corriere”, da un brigatista? e la porta alla moglie del prigioniero; la signora Eleonora la riaffida al sacerdote che la porta in Vaticano dal cardinale Ugo Poletti che nella tarda serata del 20 aprile la consegna nelle mani del Papa. La lettera comincia con “Alla stampa, da parte di Aldo Moro, con preghiera di cortese urgente trasmissione all’augusto Destinatario e molte grazie”.

Con quella lettera si accende un nuovo capitolo. Moro scrive: “In quest’ ora tanto difficile mi permetto di rivolgermi con vivo rispetto e profonda speranza alla Santità vostra, affinché con altissima autorità morale e cristiano spirito umanitario voglia intercedere presso le competenti autorità governative italiane per un’equa soluzione del problema dello scambio di prigionieri politici e la mia restituzione alla famiglia, per le cui necessità assai gravi sono indispensabili la mia presenza e la mia assistenza”. Dunque il presidente della Democrazia Cristiana, l’uomo che è stato presidente del Consiglio dei ministri, ministro degli esteri e degli interni, si mette sullo stesso piano dei brigatisti in carcere – e alcuni sono pericolosi delinquenti comuni – attribuendo loro un ruolo politico. L’appello non venne consegnato ai giornali, né alla magistratura e diventerà noto il 23 maggio del 1980 quando Giulio Andreotti la consegnerà alla Commissione parlamentare d’inchiesta. Andreotti l’aveva ricevuta il 21 aprile da monsignor Giuseppe Caprio della segreteria di Stato vaticana che si era recato nell’abitazione del Presidente del Consiglio per chiedergli se il Governo ritenesse utile un intervento del Pontefice.

Andreotti avrebbe risposto che il Governo attendeva “proposte concrete” da parte di Amnesty International. Francamente gli uomini della politica si muovevano con i tempi della politica, sempre lentissimi mentre i tempi di Moro scorrevano molto veloci al punto che il prigioniero scrive: “Solo la Santità Vostra può porre di fronte alle esigenze dello Stato le ragioni morali e il diritto alla vita”. Appunto il “diritto alla vita” che nella prigione del popolo sta per cessare mentre il Governo attende una risposta da Amnesty.
Alle 13 di quel 21 aprile il segretario del Consiglio degli affari pubblici del Vaticano, monsignor Agostino Casaroli si reca da Andreotti, gli legge la lettera di Moro annunciandogli che il Papa la vorrebbe trasmettere al Presidente della Repubblica Giovanni Leone. Il Vaticano si muove in punta di piedi, rispettoso delle decisioni del Governo italiano.

Poi c’è il “mistero“ del sacerdote. E più ovvio pensare che l’indirizzo del sacerdote venne dato da Moro; probabilmente fu lui il canale di comunicazione fra i familiari del rapito e i brigatisti. Invece è molto improbabile che Mennini venne portato – la tesi venne autorevolmente sostenuta – nella prigione del popolo per confessare il condannato a morte. Dopo l’arreso di Curcio e Franceschini per delazione di un frate, quel padre Girotto chiamato “fratello mitra”, i brigatisti avevano preso straordinarie regole di prudenza quindi di sicurezza. Non si può escludere che il sacerdote abbia avuto un  qualche contatto con  emissari dei carceri i Moro, ma l’ipotesi di una confessione nella citata prigione, appare molto improbabile anche se quella affermazione venne fatta da Francesco Cossiga, Ministro degli Interni nei giorni di Via Fani poi Presidente della Repubblica.  
Mennini, Nunzio apostolico in Gran Bretagna – parla correntemente inglese, francese, spagnolo, tedesco, bulgaro e russo – avrebbe ascoltato l’ultima confessione di Moro. Lo affermò Cossiga; Mennini ha ripetutamente affermato di non essersi mai recato nella prigione e quella, suggestiva, di un sacerdote che si reca a confessare un condannato a morte è una delle tante bufale che hanno accompagnato la tragedia di Via Fani.

Per tornare all’ iniziativa di Papa Montini si vede che è condizionata da un tentativo molto prudente in quanto Andreotti aveva spiegato la posizione del Governo che non consentiva la scambio dei prigionieri. Ogni soluzione doveva percorrere i binari della legge rispettando – è una frase di Andreotti – “la sensibilità di coloro che sono stati colpiti più duramente dai terroristi mentre erano al servizio dello Stato in una posizione di grave rischio e di grande impegno”. Si potrebbe obiettare che anche Moro era al servizio dello Stato, anche lui si trovava nell’identica posizione degli uomini già uccisi, anche la sua famiglia era nel dolore più atroce. Davvero quella fu una scelta difficilissima.
A renderla ancora più spinosa c’era stato lo scontro fra Moro prigioniero e don Virgilio Levi all’epoca vice direttore dell’ “Osservatore Romano” che, si può supporre, pubblica notizie in parallelo con il pensiero del Pontefice. Risale al 7 aprile. Levi aveva scritto – in vero quella era l’opinione corrente che Moro “…è costretto a dire cose che non pensa, o pensare cose che, senza la violenta pressione di un carcere e di un processo arbitrario, non avrebbe mai ospitato il suo spirito”.

Moro aveva replicato e riferendosi ai falchi di Piazza del Gesù aveva scritto “il mio sangue ricadrà su di loro” quindi si rivolgeva al cardinale Poletti “per correggere il rifiuto del ricatto” pubblicato sull’ “Osservatore” da don Levi. Tutto questo doveva restare segreto ma comparve sulle pagine di “Op” del 18 aprile e fu un terremoto. Non si è mai saputo come Mino Pecorelli direttore e spesso unico redattore del settimanale, fosse venuto in possesso della lettera con l’invettiva di Moro. Il presidente del consiglio Giulio Andreotti scrisse sul suo diario che Francesco Cossiga si era adirato per quanto pubblicato da “Op”. Giornalista, scrittore, avvocato si occupò del rapimento e dell’omicidio del leader democristiano pubblicando rivelazioni sconcertanti per esempio sulla falsità del comunicato attribuito alle Br che indicava Moro “inpantanato” – il famoso errore – nel Lago della Duchessa e sulle trattative del Vaticano, all’epoca tenute  segrete e poi solennemente smentite, ma alla fine confermate negli anni Novanta dalla lettera di Moro alla moglie.

Il suo “bersaglio” preferito fu Giulio Andreotti poi Pecorelli venne assassinato; si ipotizzò addirittura il già presidente del Consiglio come mandante del delitto. Famosi i processi che videro Andreotti indagato, processato, condannato, assolto; si capì che il giornalista aveva una rete di informatori nei servizi segreti fino al Quirinale. Il suo terreno di lavoro era nei palazzi della politica romana, nei santuari della mafia, nelle stanze dei ricchissimi affari. Roma, comunque. Così sorprese davvero quando dedicò un numero intero del suo settimanale allo storia di Fassalaurina, la valle di cemento costruita da un imprenditore che aveva “incantato“ personaggi della politica trentina da tempo, purtroppo, scomparsi. Chissà perché scrisse di Fassalurina. E’ certo che ebbe, attorno a Moro, notizie precise, ancora ricche di misteri.

(19. Continua)

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