Il sequestro Moro/16

Il sequestro Moro/16

di Luigi Sardi

Si avvicina il 25 aprile, il fatidico giorno che commemora la liberazione dal nazifascismo con l’Italia che piomba nel totale caos in un succedersi di incredibili avvenimenti. È il 20 aprile un giovedì. A Milano il “gruppo di fuoco” della colonna brigatista “Walter Alasia” uccide il maresciallo Francesco De Cataldo vicecomandante degli agenti di custodia del carcere milanese di San Vittore mentre a Padova Ezio Riondato, docente universitario, viene gambizzato in un attentato rivendicato dal “Nucleo combattente per il comunismo” e a Roma, al “Messaggero,” arriva il settimo comunicato delle Br con una fotografia per dimostrare che Moro è ancora vivo annunciando che le Br prenderanno in considerazione l’eventualità di rilasciare il prigioniero solo a condizione che lo Stato scarceri i “prigionieri comunisti”, accordando 40 ore di tempo alla Dc e al Governo, dopodiché procederanno all’esecuzione dell’ostaggio.

Tre giorni prima l’Italia era stata messa in subbuglio da un comunicato nel quale si annunciava “l’avvenuta esecuzione del presidente della Dc mediante suicidio” e informava che il corpo si trovava “impantanato nei fondali limacciosi del lago della Duchessa”. Pochi si erano accorti che invece di “impantanato” i brigatisti avevano scritto “inpantanato” e quello con altri due errori aveva fatto sorgere un sospetto. I “famigerati” comunicati targati Br non avevano mai commesso errori di ortografia, grammatica, sintassi e poi c’era la stranezza di quel lago, situato tra Abruzzo e Lazio, nella provincia di Rieti al confine con quella dell’ Aquila; una conca glaciale sovrastata da impervie cime, Monte Murolungo di 2184 metri e Monte Morrone di 2141 metri.

Appunto conca glaciale e lago ghiacciato e abbondantemente innevato come potevano vedere milioni di italiani incollati ai televisori mentre una massa di militari – gli elicotteri trasferirono anche i rocciatori della Scuola alpina della Pubblica Sicurezza di Moena – sfondato il ghiaccio con cariche in esplosivo, assistevano i sub della Marina immergersi nel nulla. E c’erano altri uomini a scavare, a casaccio, nella neve. Tutti capirono che c’era un’anomalia in quel comunicato ma il trambusto durò due giorni. Da aggiungere che al primo allarme, il lago era stato sorvolato da un elicottero dell’Esercito con a bordo il procuratore capo di Roma Giovanni De Matteo, il vice capo della Polizia Emilio Santillo e il direttore di uno dei tanti servizi segreti. Volando a bassa quota si vedeva che sulla neve non c’erano né tracce né orme né buche e che il solo raggiungere il lago era quasi un’ impresa alpinistica.

Dunque arriva al “Messaggero” un nuovo, questa volta autentico, scritto brigatista. E’ il settimo sigillo, serve a dimostrare che il comunicato sulla morte di Moro nel pantano del lago è un falso, che l’ostaggio fotografato con in mano una copia di “la Repubblica” è vivo e serve alle bierre per dare al Governo e alla Dc, ma in vero agli italiani tutti, un ultimatum: lo scambio fra l’ostaggio e i “prigionieri comunisti”, fra Aldo Moro e tredici detenuti protagonisti, quasi tutti, di crimini spietati. Ci sono i brigatisti che si stanno processando a Torino, ci sono criminali che hanno ucciso durante le molte rapine nelle banche. Perché sul finire degli anni Sessanta, quello delle rapine era un fenomeno quasi giornaliero.

Con sparatorie, uccisioni e ai processi gli imputati salutavano con il pugno chiuso, urlavano slogan. Il carcere non spegneva il loro spirito rivoluzionario. Nelle prigioni, molti di loro si batteranno contro le condizioni di estremo degrado – a Trento il giudice Antonio Crea le definirà “medievali” – nelle quali i detenuti erano costretti a sopravvivere. La proposta di scambio tra il prigioniero Moro da una parte e i terroristi detenuti nelle carceri dello Stato dall’altra conteneva un  altro messaggio. Il tribunale del popolo aveva ritenuto Moro colpevole e lo aveva condannato a morte. La politica si lacera, l’Italia si spacca davanti a quello che venne chiamato “il muraglione della fermezza” e sull’ “Unità”, all’ epoca il quotidiano del Pci, si aprì un dibattito, che divenne subito scontro fra gli intellettuali del partito, fra la tesi stalinista e quella revisionista, insomma fra chi rifiutando la trattativa consegnava Moro al carnefice e chi voleva lo scambio e la salvezza dell’ostaggio.

Finalmente si era capito che la cattura di Moro serviva per uno scambio fra il personaggio più in vista – e meno protetto – della Dc e i “compagni comunisti prigionieri”, trattativa che avrebbe in qualche modo legittimato le Brigate Rosse. Scaturì una diatriba spesso bizantina imperniata su quanto si sarebbe potuto sottrarre ai tredici in carcere – si scivolò fino alla scambio uno a uno – per riavere Moro. Si poteva fare? Lo fece Israele qualche tempo dopo liberando molte centinaia di detenuti palestinesi e arabi in cambio della restituzione di cinque israeliani ma l’Italia precipitò in un accanito dibattito. Le “colombe”, cioè quelli che avrebbero voluto lo scambio, indicarono Paola Besuschio una tranquilla ragazza quando militava in Potere Operaio e quando studiava a Trento, alla Facoltà di Sociologia dove aveva conosciuto Margherita Cagol, la Compagna Mara di Sardagna e Renato Curcio che la faranno entrare nelle Br. Accusata di aver partecipato al ferimento dell’esponente democristiano Massimo De Carolis e condannata a 15 anni doveva, nel convulso immaginario di quelle giornate, venire scambiata con Moro.

Eleonora Moro invia un messaggio alla segreteria della Dc, invitandola “a pronunciarsi sulla trattativa altrimenti la famiglia del prigioniero si dissocerà dal partito”. Il segretario del Psi Bettino Craxi incarica il giurista Giuliano Vassalli di stabilire se esiste una possibilità, senza violare le leggi della Repubblica, di scegliere fra i detenuti delle organizzazioni terroristiche quei personaggi che si potrebbero scarcerare. La mossa socialista convince due esponenti del Pci – Umberto Terracini e Lucio Lombardo Radice – a firmare un appello e il partito si affretta, con un comunicato, a sottolineare che l’adesione dei due dirigenti è a titolo personale. Moro scrive due lettere indirizzate a don Antonello Mennini, vice parroco di Santa Lucia a Roma che le consegna ad Eleonora Moro. Una è per Zaccagnini, l’altra per il Papa. In Vaticano il cardinale Ugo Poletti consegna la missiva nelle mani del pontefice e Paolo VI per far capire ai brigatisti di aver ricevuto il messaggio, si rivolge durante l’Angelus del 23 aprile ai fedeli che gremiscono Piazza San Piero dicendo: “Di Aldo Moro nessun altra notizia. Abbiamo trepidato ieri alla scadenza dell’ora fissata dagli anonimi auto costituitisi giudici unilaterali e carnefici, e trepidiamo ancora, sempre aspettando e pregando che sia risparmiata la consumazione del criminale annunciato misfatto”.

Si è sotto l’incubo dell’ ultimatum alla Dc e al Governo: quelle 40 ore per decidere lo scambio dei prigionieri, altrimenti l’ostaggio sarebbe stato “giustiziato”. Però il Pci aveva già deciso. Il 30 marzo, durante i lavori della direzione comunista Luciano Lama partigiano, segretario generale della Camera del Lavoro, aveva scandito: “Bisogna dire con chiarezza e far entrare nella testa della gente che qualunque cosa dica Moro, non può essere presa per vera” e la posizione del sindacalista era stata accolta da Luigi Longo, Giorgio Napolitano, Emanuele Macaluso, Alessandro Natta” tanto per ricordare i personaggi più noti mentre Giorgio Amendola aveva dichiarato “di ritenere autentica ma grave la lettera indirizzata da Moro a Cossiga” nella quale il prigioniero chiedeva lo scambio aggiungendo che “lo Stato non deve cedere”. Poi il quotidiano del Pci “l’Unità” aveva scritto: “Nessuno ha avuto dubbi. La lettera è stata scritta in uno stato di costrizione morale e fisica tale da togliere ogni autenticità e quindi ogni significato e valore alle cose che vi si dicano. E ciò non vale solo per il messaggio di ieri; vale anche per altri documenti con la stessa calligrafia che, purtroppo, dobbiamo ancora aspettarci dai rapitori”.

(16. Continua)

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