La vera scuola manca a tutti

La vera scuola manca a tutti

di Eliana Agata Marchese

La clausura vista con gli occhi dei diciottenni. E la scuola (senza schermi) ci manca sempre di più.

«Com’è la quarantena in Italia?»: il nostro compagno, ancora in Germania per l’anno all’estero, continua ad unirsi alle lezioni in streaming; oggi è preoccupato, perché sembra che il Bayern voglia adottare il modello italiano: chiusura totale.
 
Gli altri studenti della classe fanno a gara a rispondergli: «Non si può uscire, nemmeno per fare jogging». «Mia mamma va a fare la spesa da sola, al supermercato controllano gli ingressi». «Non ci si può salutare. Non ci si può stringere la mano. Non ci si ferma a fare due chiacchiere per strada, anche perché in strada nessuno può andarci». «Io sono felice di vivere in paese - aggiunge una ragazza - almeno ho un giardino e uno spazio esterno».

La clausura da Coronavirus, vista con gli occhi dei diciottenni. «Se la cosa fosse stata gestita meglio - aggiunge un altro compagno - forse adesso non saremmo a questo punto. Era passato il messaggio che fosse una specie di influenza, ma è molto di più». Tutti hanno visto le immagini dell’esercito che scorta i cadaveri fuori da Bergamo. Tutti rispettano le restrizioni, e sperano che l’isolamento debba durare poco. «Prof - interrompe un altro - ci manca vederla a scuola. La prossima volta può salutarci con “buongiorno signori; sedetevi pure” come fa di solito?”». Rido: «Promesso, ragazzi. La prossima volta vi chiederò anche di appoggiare i cellulari sulla cattedra, come facciamo a scuola».
Si collega nel frattempo un altro studente dall’Australia; in Queensland scuole ancora aperte, ma tutto il resto sta chiudendo: «Ieri - racconta - sono stato al supermercato. C’erano dei cartelli che spiegavano le limitazioni negli acquisti: non più di una confezione di riso a testa, non più di un pacco di carta igienica». Lo schermo segnala un’altra connessione: è il nostro compagno di classe in America centrale: «Qui sono le cinque del mattino - esordisce - apprezza lo sforzo, vero prof?».

Apprezzo, certo. Lui sta aspettando il volo che lo riporterà in Italia, con largo anticipo rispetto alla data prevista. Altri compagni di classe sono già tornati dall’estero, ora trascorreranno la quarantena a casa; faranno, cioè, quello che tutti stiamo facendo in Italia: resistere, aspettare la cura, oppure il vaccino. Nel frattempo però siamo qui, una classe al monitor. Stiamo bene, ci siamo tutti: cominciamo il ripasso dell’Illuminismo. Proprio pochi giorni prima che le scuole chiudessero abbiamo letto un’ode di Giuseppe Parini. La rileggiamo. I visi dei miei ragazzi si alternano sullo schermo. Parini era di Milano; più di duecento anni fa, dalla stessa città che oggi soffre, salutava il vaccino contro il vaiolo come una salvezza per l’umanità. Credeva nella scienza, Parini; credeva nel progresso. Dobbiamo crederci anche noi.

Termino un serrato ripasso del Settecento. Hanno studiato, i ragazzi: «Certo, prof - aggiungono - gliel’avevamo promesso, no?». Si attiva un altro microfono: «Ci prometta una cosa anche lei - (rimango in attesa, interdetta) - quando torneremo a scuola, può venire un giorno con la cuffia da call center, come la vediamo adesso? E non si scordi i tacchi: ci manca il rumore dei suoi tacchi in giro per l’aula. Noi invece porteremo un pesce rosso, fingendo di fargli fare per disperazione una passeggiata, come si fa con i cani». Promesso: armamentario da call center. «Ma quanto le manchiamo, prof? Lo dica che le manca la scuola vera». Mi manca, ragazzi. Mi manca eccome. Al ritorno, un giorno entrerò in classe con le cuffie. Ma poi le appoggerò sulla cattedra, finalmente senza schermi di mezzo.

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