Il sequestro Moro/2

Il sequestro Moro/2

di Luigi Sardi

Eppure, gli italiani erano passati, in quegli anni, attraverso prove terribili. Piazza Fontana, la strage di Brescia, Piazza della Loggia, l’Italicus, l’omicidio del commissario Calabresi e il sequestro di Mario Sossi, pubblico ministero nel processo che portò alla condanna dei membri del Gruppo XXII Ottobre di ispirazione marxista-leninista, il primo che scelse la lotta armata.

 Sossi venne caricato su un’ Autobianchi A 112 condotta da Alberto Franceschini, seguita dalla Fiat 128 guidata da Margherita Cagol la sociologa di Sardagna nella lotta armata.

 Appunto la “compagna Mara”, cresciuta a Trento nell’epoca del miracolo economico, suonava virtuosamente la chitarra e si era laureata nel 1969 con la tesi intitolata: “Qualificazione della forza lavoro nelle fasi dello sviluppo capitalistico”. Relatore Francesco Alberoni e i testimoni quel 110 e lode ricordano che conclusa la discussione, aveva orgogliosamente alzato il braccio sinistro con il pungo chiuso. Poi il matrimonio con Renato Curcio non in una chiesa qualsiasi, ma a San Romedio, un santuario che infonde voglia di preghiera fra i credenti e rispetto per gli atei. Poi via, per la festa laica, verso un’altra gemma del Trentino: il lago di Tovel. Il 7 luglio del 1959 Mario Casetti, preside delle scuole medie di via Matteotti, la indicava come “elemento dotato di buona capacità” che dimostrò nel 1970 quando fondò con Curcio e Franceschini le Brigate Rosse. Negli anni successivi, Curcio avrebbe detto che “Margherita volle l’ organizzazione armata quanto me, se non più di me”.

 Mara rischiò di morire mentre i brigatisti portavano via Sossi. Superato un posto di blocco, Franceschini, per un equivoco, sparò una raffica di mitra contro l’auto guidata da Mara Cagol. L Fiat venne sforacchiata, Mara rimase illesa.

 La mattina del sequestro non si trovò più pane dai fornai. La gente ne aveva fatto incetta, come nel giorno del giungo del 1940, quello della dichiarazione di guerra. Il quotidiano l’Unità era uscito con il titolo a scatola “Rapito Aldo Moro” e le fotografie mostrano quella prima pagina ben aperta dai militanti del Pci radunati davanti alle Botteghe Oscure, a dimostrare che il partito, anzi il Gran Partito, era contro la lotta armata. Ma ecco il ricordo di quella giornata dalla testimonianza di Giorgio Postal fissato nelle pagine del giornale l’Adige di domenica 26 giungo 2011. “Alle 9 in punto di quella mattina ero a Palazzo Chigi per il giuramento dei sottosegretari davanti al Presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Dopo la nomina, il giuramento dei ministri, un atto formale, indispensabile per la pienezza del nuovo governo che sarebbe passato alla storia come quello della solidarietà nazionale. Ero stato riconfermato Sottosegretario alla Ricerca Scientifica e poiché il ministero al quale appartenevo era l’ultimo nato nel tempo, toccava a me l’ultimo posto nell’ordine del giuramento. Come sempre, in queste occasioni – in precedenza avevo giurato altre due volte – c’era aria di festa. Anche Andreotti, di tanto in tanto, riusciva a sospendere la sua proverbiale imperturbabilità con un lampo di calore e di cordialità: del resto stava per nascere il suo quarto governo. La cerimonia doveva essere abbastanza breve; ciascuno doveva leggere la formula di rito del giuramento e firmare un protocollo. Poi Andreotti ci stringeva la mano e ci augurava buon lavoro. Quella mattina tutto andò avanti secondo il ritmo consueto. E questo sino alle nove e un quarto, quando un alto funzionario della Presidenza si avvicinò ad Andreotti e gli disse qualcosa all’orecchio. Dal quel momento il ritmo della cerimonia venne del tutto accelerato e cambiò in maniera impressionante. Era evidente che doveva essere successo qualche cosa di grosso. Quando, per ultimo, arrivò il mio turno e Andreotti mi strinse la mano, era quasi di corsa. Lasciò immediatamente la sala. Nessun discorso finale, come era d’abitudine. Solo un laconico buon lavoro”.

 Fu a questo punto che si sparse la voce che Aldo Moro era stato rapito. “L’impressione, la costernazione furono enormi. Quando uscimmo da Palazzo Chigi, piazza Colonna era deserta. Anche piazza Montecitorio era deserta e il silenzio era irreale. Nel Transatlantico”, l’imponente salone simbolo della vita politica nazionale così chiamato perché l’arredo richiama quello delle grandi navi passeggeri d’inizio Novecento, “la concitazione era inverosimile. Non c’erano notizie precise; si diceva che c’erano stati dei morti, ma che Moro era stato portato via vivo. Poi arrivò la notizia che in via Licinio Calvo era stata trovata una Fiat 132 con delle macchie di sangue fresche, e che quella dove essere l’automobile con la quale i rapitori avevano trasportato Moro. Dunque era ancora vivo?”

Roma si fermò quasi di colpo. Dalle strade in perenne caos sparirono quasi tutte le auto, i pedoni camminavano veloci: pareva che corressero a cercare un rifugio. Nella Capitale, come in tutte le città d’Italia, persino nei paesi c’era bisogno di trovare un riparo fisico: insomma gli italiani tornavano in trincea mentre il Paese si fermava e le edizioni straordinarie dei telegiornali si susseguivano. A Roma i negozi abbassarono le serrande, si vuotarono i bar, pochissimi andarono al ristorante, i turisti tornarono in fretta negli alberghi, anche la Cattedrale di San Pietro si vuotò e, così si disse, gli accessi alla Città del Vaticano vennero sbarrati.

Continua il racconto di Postal. “Alla Camera, alle dieci di quel mattino, era previsto l’inizio del dibattito parlamentare sulla fiducia con le dichiarazioni del Presidente del Consiglio; ovviamente il presidente dell’assemblea Pietro Ingrao sospese la seduta mentre cresceva la tensione che, con il passare dei minuti, diventava allarme. Ci si domandava chi fossero gli autori di un’azione tanto efferata e così deflagrante, un vero e proprio attacco al cuore dello Stato commesso proprio nel giorno in cui, per la prima volta nella storia repubblicana, il Partito comunista entrava formalmente nella maggioranza di Governo, sia pure solo con l’appoggio ad un programma concordato. Il Presidente della Camera Ingrao convoca i capigruppo per discutere l’ipotesi di un dibattito sulla fiducia al nascente governo in tempi brevi; Pietro Nenni, l’anziano leader socialista, ha un malore ma non vuole lasciare Palazzo Madama. Con il presidente del Consiglio Andreotti ci sono il segretario del Pci Enrico Berlinguer arrivato da via delle Botteghe Oscure assieme ad Alessandro Natta e Giancarlo Pajetta; ci sono i segretari del Psi Bettino Craxi, quello delle Dc Benigno Zaccagnini” chiamato “Zac, Zac” dalle folle democristiane, “il socialdemocratico Pier Luigi Romita e il presidente del Partito repubblicano Ugo La Malfa. Ci sono anche i sindacalisti Luciano Lama, Luigi Macario e Giorgio Benvenuto” mentre davanti a Montecitorio, Palazzo Madama e alla sede della Rai si raggruppano reparti di Carabinieri in armi e i militari di stanza nella Capitale sono consegnati e rafforzati i servizi di guardia.

(2.continua)

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