No alla montagna in «stile Briatore»

No alla montagna in «stile Briatore»

di Renzo Moser

L’ampia terrazza baciata dal sole, i divani di design che accolgono  eleganti coppiette per l’aperitivo, all’interno una sala dall’arredamento «industrial», rigorosamente minimalista, con un sapiente connubio di pietra, legno e ampie vetrate. Dalla cucina escono raffinatissimi piatti a base di pesce.

Un sogno. Macché, un incubo! Perché è un incubo vero e proprio trovare, là dove prima sorgeva una meravigliosa Hütte dal pavimento di larice consumato, nella cui stube gli scialpinisti erano soliti cambiarsi incuranti dell’afrore e del pudore, un lounge bar di briatoresca ispirazione. Insomma, un «Twiga» de noantri, a oltre duemila metri di quota nel cuore dei monti Sarentini.

Quel «coso» è l’esempio perfetto di quello che non si dovrebbe fare in montagna. Non solo: lo hanno fatto in quel Sudtirolo, che molto spesso, forse troppo spesso, viene citato dai trentini come l’esempio da seguire, l’impietoso contraltare nei confronti del quale ci sentiamo sempre così inadeguati. A conferma che «business is business» anche lassù e che certe scelte folli non hanno confini e che le cattive abitudini sono contagiose e dilagano.
Veniamo a noi e alla cronaca di queste settimane. Partiamo dall’annunciato raduno quad sulle Dolomiti, il cosiddetto «Quad in Quota», con tour guidato di 80 km e tanto di «notturna». Dopo l’annuncio dell’iniziativa, i primi a muoversi sono stati quelli di Mountain Wilderness, che hanno denunciato il raduno presentando un esposto; in seconda battuta la Sat ha bollato l’iniziativa come «un’aggressione alla montagna».

Poche settimane prima, la stessa Sat aveva ribadito in assemblea il proprio «no», nonostante le pressioni, a un via libera incondizionato per le mountain bike sui sentieri di montagna.
E ancora: non pochi soggetti, a partire dagli albergatori, sono insorti contro il programma #dolomomitesvives, che prevede la chiusura dei passi dolomitici al traffico per nove mercoledì e due (due!) domeniche estive.
Potremmo andare avanti a lungo, ricordando l’eliski, le «voliere» sulle piste dove ci si bombarda di bombardini e musica techno, i rifugi con le palme e la sabbia di mare e altre amenità che in questi anni ci è toccato di raccontare.
Sembra di assistere a un’onda irresistibile di brutture, iniziative strampalate, facili scorciatoie verso un obiettivo comune ma dai contorni estremamente ambigui: lo «sfruttamento» della montagna.
È questa la parola magica che spesso gli esperti di marketing e turismo montano (o sedicenti tali) evocano come giustificazione ultima e lasciapassare incondizionato.

Come reagire a questa ondata? E, soprattutto, come offrire strade alternative a chi di montagna, che ci piaccia o no, deve campare?

Qualche settimana fa, nel corso del FilmFestival della Montagna, mi è capitato di partecipare a un dibattito proprio su questo tema, organizzato da Uisp  e Block&Wall. Tra i numerosi interventi, uno ha colpito per lucidità, onestà e profondità, quello di Alessandro Gogna.

Gogna è un alpinista, un ambientalista, un uomo di montagna che da anni combatte per difendere le meraviglie che ci circondano e che noi maltrattiamo con tanta leggerezza.
In quell’occasione ha detto una cosa molto semplice: è tutta una questione di «stile». È lo stile che fa, e farà, la differenza. Farà perché qui non si tratta di arroccarsi, o addirittura di tornare indietro. Si tratta di andare avanti, ma di farlo nella giusta direzione. Per trovarla, quella direzione, bisogna prima di tutto chiedersi quale debba essere  lo stile, non solo e non tanto di chi va in montagna, ma soprattutto della montagna stessa. Di un territorio, insomma.

Ci dobbiamo chiedere se ha ancora e avrà senso parlare di uno «stile» trentino o se le nostre montagne dovranno appiattirsi su un modello «internazionale» (altra parolaccia usata dai citati esperti), che riduce tutto a un enorme parco giochi, dove i caroselli sciistici sono tutti uguali (la neve, d’altra parte, ormai si produce dappertutto, anche a Dubai...), i sentieri sono piste da down hill, le pareti sono palestre, le strade forestali piste per i quad o per le moto, le malghe sono ristoranti per gourmet e i rifugi dei resort con tanto di spa.

No, lo stile è altro. Ma non è una cosa d’altri tempi, non è la fisima di vecchi montanari nostalgici e brontoloni. Lo stile è il futuro, e solo ritrovandolo - giacché lo stile appartiene ai luoghi e non siamo noi a inventarcelo - e proteggendolo con fermezza, un territorio può salvarsi dall’omologazione che vorrebbe fare della montagna qualcosa che si compra e si consuma e non qualcosa che invece si guadagna passo dopo passo.

La montagna si vive, non si usa.

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