Falcone-Borsellino, 25 anni dopo

Falcone-Borsellino, 25 anni dopo

di Carlo Ancona

Venticinque anni fa un attentato che non aveva precedenti per dispendio organizzativo, potenza di mezzi e dimensioni di effetti, uccideva Giovanni Falcone, sua moglie e l’intera scorta. Poche settimane dopo, l’assalto degli squadroni della morte si ripeteva, ed aveva a vittima il pubblico ministero Borsellino.

Venivano così uccisi due magistrati, ma soprattutto veniva colpito un simbolo, quello della giustizia che non si accontentava del ruolo di semplice garante dei diritti individuali, ma cercava di ottenere nel rispetto della legge la tutela di valori primari del vivere civile, e per prima della libertà collettiva.

Gli autori del delitto, nonostante altri successivi terribili attentati, non ne trassero profitto, come in precedenza; quel progetto continuò ad andare avanti, forte dell’esperienza del lavoro delle vittime, ma soprattutto dell’indignazione e della memoria dei cittadini. Vi furono modifiche della normativa processuale, arresti, dichiarazioni di pentiti, sentenze di condanna. Ancora oggi il ricordo di Falcone è in grado di suscitare commozione e impegno, e per tale via costituisce ragione e lievito della nostra pur fragile democrazia.

Sarebbe di conforto sapere che la memoria anche di altri importanti fatti della recente storia italiana vive nei cittadini; aiuterebbe a sperare nel nostro comune futuro di Italiani, molto più del raggiungimento di qualche punto percentuale di aumento del Pil, o della possibilità di fare altro debito (la così detta flessibilità).

Ed invece, anche da quei fatti sono passati troppi anni per la capacità di memoria degli Italiani; quel clima d’impegno collettivo è da tempo cessato, tutti sono tornati ad accudire i loro personali interessi. Viene da chiedersi cosa resta di Falcone e Borsellino, e con loro delle tante vittime degli squadroni della morte che con il loro sacrificio hanno difeso la libertà dei cittadini dall’assalto della criminalità organizzata e del terrorismo.

Rimane il dubbio se ne sia valsa davvero la pena, che rinunciassero alla compagnia delle loro famiglie, ai piccoli o grandi piaceri che la vita invece sa assicurare a chi asseconda lo spirare del vento, al loro appassionato impegno umano ed associativo, al sorriso gioviale o smorzato che li distingueva, alle carriere di magistrati conosciuti e stimati, che l’ordinamento giudiziario garantisce anche (e soprattutto) a quelli neghittosi e pavidi; e tutto questo per ottenere la vittoria dell’Italia che oggi conosciamo, che sembra aver dimenticato, se non i loro nomi, il significato della loro esperienza.

Ricordava un grande storico francese che la storia letta dai contemporanei ha il ritmo breve della loro vita, breve e convulsa, e la dimensione ed i limiti delle loro collere, dei loro sogni, delle loro illusioni. E quindi, ricordare la morte di Falcone e Borsellino, tornando su fatti avvenuti solo venticinque anni or sono, non è scrivere storia, ma è fare opera di testimonianza.

Eppure, si tratta di una testimonianza doverosa, oggi più che mai. Perché si tratta di cercare in questo ricordo un momento di coesione comune a tutti gli Italiani, un valore che li unisca; e quindi qualcosa che ha destato in loro una collera, un sogno, un’illusione comuni, che li distolga almeno per un momento dal loro spirito di fazione, dalla logica degli interessi particolari, dalla indifferenza alle responsabilità di cittadini. Per tentare almeno una volta almeno a provare se, in Italia, i cittadini possano sentirsi legati da un comune patto civile, ed in esso trovare le ragioni di vivere assieme, più forti e numerose delle occasioni di divisione.

Tentativo lodevole soprattutto in Italia, Paese dove l’unico processo di ragionevole durata è quello di rimozione, e si è sempre pronti a dimenticare ogni esperienza storica, fatti nobili ed ignobili, prove di eroismo e di viltà, ma non si è invece disposti a seppellire i rancori, le bugie, le maldicenze, gli slogan, la faziosità. Ormai un’occasione del genere si presenta sempre meno di frequente: ad esempio, il venticinque aprile, o il quattro novembre, sono feste di tutti, ma ognuno attribuisce ad esse un significato differente, seguendo logiche ed ideologie dettate da interessi di parte.

La morte di Falcone e Borsellino non si presta ad interpretazioni partigiane; essa è avvenuta sotto gli occhi di tutti, con modalità e per ragioni che tutti conoscono. La condivisione di un progetto e di valori comuni può sorreggersi solo sull’informazione e sulla prova che quel progetto e quei valori hanno subito nel recente passato, delle battaglie anche sanguinose che altri hanno condotto per difenderli. Se qualcuno pensa che per legare il cuore dei giovani all’idea di Italia o anche solo di Trentino sia sufficiente un richiamo acceso ai successi di una squadra di calcio, o anche quello paludato al sacrificio di Battisti, si sbaglia; e con tali errori, sia a livello nazionale che di comunità locale, si consuma il delitto più grave, la cancellazione della memoria collettiva e della comune tradizione di appartenenza ad una piccola o ad una grande Patria.

La memoria, naturalmente, è scomoda: essa comporta un’assunzione di responsabilità; e per questo viene rifiutata. Si pensi ai tanti uomini politici (di lungo corso o anche di recente ambizione) che addebitano al governo in carica tra il 2011 e l’anno seguente sacrifici causati invece da scelte di politica economica che risalgono ai primi anni ’70, allora condivise apparentemente da un ampio coro di consensi, e che furono poi consacrate nel decennio successivo; politica che fu adottata nonostante tempestive denunce ed esatte previsioni (del giornalista Cesare Zappulli o del poeta Pier Paolo Pasolini, ad esempio), che nessuno ricorda; perché in questo Paese, per uno strano meccanismo di contagio, il torto si trasferisce su chi prevede il risultato di certe scelte, o cerca di attenuarne le conseguenze; e viene invece rifiutato da chi le adotta.

Non so chi abbia voglia di ricordarli davvero, quei colleghi uccisi per un impegno ormai fuori moda, per la testimonianza di un coraggio civile che suonava allora e suona oggi oltraggio per coloro (anzitutto i colleghi) che non lo condividevano; è possibile che oggi sarebbero stati raggiunti da sanzioni disciplinari, per le soluzioni organizzative non ortodosse che adottarono nel loro lavoro, ed invitati a tornare al più comodo ruolo di garanti di diritti individuali; quei diritti che troppo spesso vengono tutelati «a prescindere», e cioè nella indifferenza dell’interesse della collettività e soprattutto dei cittadini di domani, sui quali i relativi costi economici si vanno a scaricare sotto forma di un debito pubblico sempre più pesante. Non per nulla un giornalista di allora paragonò Falcone ad Aureliano Buendìa, l’eroe di oltre trenta rivoluzioni, che puntualmente perse tutte.

Qualcuno forse ricorda il bellissimo libro «la collina dei conigli»; Moscardo ed i suoi amici, viaggiatori che cercano una nuova casa, incontrano un gruppo di conigli ben pasciuti, senza nemici, aiutati da un contadino munifico; che non avevano problemi di alimentazione, e costituivano una comunità ricca, libera, di eguali; unico costo, dovevano dimenticare immediatamente le perdite che tra di loro faceva il laccio del contadino; pagavano con la rinuncia alla memoria il rifiuto di assumersi la responsabilità del loro destino.
Sta a noi decidere se lo stesso debba continuare a fare, più o meno consapevolmente, la nostra collettività.

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