Scrivere con le scarpe ripensando Erodoto

di Paolo Ghezzi

Scrivere con i piedi non è un buon servizio ai lettori. Ma per scrivere storie interessanti bisogna consumare le scarpe. Esercizio in disuso nel contesto dell'informazione digitalizzata. Scarso consumo di scarpe, preoccupante usura dell'indice cliccante sulla tastiera sottostante.

Conseguenza: appiattimento generale del tono, del gusto, dell'originalità del reportage, del racconto giornalistico (basti pensare alle cronache tutte uguali degli inviati tv dal cosiddetto «campo base» ben lontano dal disgraziato albergo di Rigopiano). Scarpe pulite, non inzaccherate da fango o neve, scarpe annoiate.

Ryszard Kapuscinski, di cui il Centro pace e l'Università di Bolzano hanno ricordato, lunedì scorso, il decimo anniversario della morte, giunta poco tempo dopo il suo primo e ultimo viaggio a Bolzano, consumava le scarpe, prima di scrivere i suoi magnifici racconti di golpe, carestie, disastri e rivoluzioni. Certo, poteva permetterselo perché l'agenzia di stampa di Stato polacca gli dava pochi soldi ma briglia lunga, cioè tempi dilatati senza lo stress di raccontare «tutto il mondo minuto per minuto». Mesi, anni a capire Stati e continenti, la storia e i suoi antichi cronisti (Erodoto in primis) e la geografia come maestre di conoscenza e anche di scrittura.

«L'Esodo e l'Odissea - ha detto Paolo Rumiz rievocando a sua volta il maestro Kap a Bolzano - sono molto più istruttivi, sul che cosa e sul come scrivere, della stragrande maggioranza dei reportage in diretta di oggi». Calzari, sandali o anche piedi nudi - dunque - come antichi e insuperati maestri del camminar raccontando e del raccontare camminando. Quando il viaggio era ancora stupore, scoperta, spiazzamento esistenziale.

Difficile dirlo meglio di Rumiz: «Kapuscinski era uno scrittore che raccoglieva dettagli, come un cacciatore del Mesolitico. Era, come molti polacchi, come il suo connazionale Wojtyla, un nomade con un desiderio indiavolato di viaggiare oltre confine, quanto più piccola era la sua Itaca nativa, la sua tana in cui si ritirava, al ritorno, a scrivere i libri. Per lui la Heimat, la terra-casa, si chiamava Pinsk, oggi Bielorussia, la terra dello spartiacque tra i fiumi che scendono verso il Baltico e quelli che puntano al Mar Nero. La Polonia, mi disse un giorno tracciando sulla carta un quadrato o un pentagono, non ricordo, non è interessante dentro, in mezzo, ma nei suoi margini».

E i margini vanno calpestati, percorsi, esplorati. «Scrivere con i piedi - sempre Rumiz - significava per lui usare i piedi che sentono e hanno memoria, dentro scarpe che si sporcano della polvere e del fango della terra. Ed entrare in empatia con le persone che incontri, osservandole e ascoltando la loro lingua, prima di cominciare a fare domande in inglese. E raccontare di se stessi, offrire agli altri un pezzo della propria vita, prima di interrogare l'altro sulla sua: così il racconto dell'altro sarà un dono ricambiato, più autentico».

Gli inglesi, per dire «mettiti nei miei panni», dicono «prova a stare dentro le mie scarpe» («Sapresti finalmente che noia è, vederti» suggeriva un perfido Dylan). Ebbene, quel che Kapuscinski ha cercato di fare per tutta la sua vita di reporter, su autobus puzzolenti e in albergucci fatiscenti, è stato proprio mettersi nelle scarpe degli altri. Per poi scriverne con le mani sue, con il suo stile inconfondibile. Esercitando l'empatia del testimone che non strepita, non giudica, non insegna, ma semplicemente racconta.

Cercare, in empatia, la verità dell'altro, non significa solo sporcarsi le scarpe ma anche le mani. Come quando (si legge in «Imperium» dedicato alla gloria e al tramonto dell'Urss) invitato nella casa di Dzumal Smanov nel Kirghizistan, il viaggiatore polacco deve assaggiare la specialità del posto: «Durante il banchetto viene offerta all'ospite la testa bollita della pecora perché ne mangi il cervello. Quindi deve estrarre un occhio con le dita e mangiarsi pure quello». Vietato, all'inviato, essere schizzinoso.

Sporcarsi le mani ma soprattutto le scarpe. Come a Jakutsk, «vero e proprio Kuwait siberiano, capitale di una repubblica milionaria giacente sull'oro e sui diamanti», arriva il disgelo d'aprile nel quartiere povero di Zaloznaja: «Liberate dalla morsa del gelo, le casupole si afflosciano... le povere casette sciancate pencolano, sbilencano, cedono e si acquattano sempre più vicino al suolo. L'intero quartiere si rattrappisce, rimpiccolisce, sprofonda al punto che qua e là spuntano solo i tetti, come una grande flotta di sottomarini che lentamente si immerga nel mare».
Libri letti e riletti (da Omero a Tolstoj), scarpe occhi e orecchie che si sporcano (e capiscono) nel camminare vedere e sentire: ecco il bagaglio indispensabile al viaggiator narrante.

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