Un calcetto impolverato nel carcere fantasma

Un calcetto impolverato nel carcere fantasma

di Paolo Ghezzi

Un calcetto impolverato, a Pianosa. In carcere. In una sala giochi dismessa del penitenziario.

Muri scrostati, salsedine, umidità. Pianosa non è più una prigione. O quasi più. Perché alcuni detenuti ci vivono ancora, con alcuni agenti. Liberi e insieme non liberi. Senza sbarre. Ma c’è l’isola che li tiene prigionieri. Perché da Pianosa non puoi nuotare via, volare via. A Pianosa ci resti finché, come nell’isola di Robinson Crusoe e di Venerdì, non arriva una nave che ti porta via. E ti danno il permesso di andartene. Pianosa. Fin dal nome, misteriosa. Isola piatta dunque. Ma anche isola dove il tempo corre piano. Oziosa, paurosa, favolosa Pianosa. Un’isola da Orlando Furioso, che se ci arrivasse ci perderebbe la furia, ci imparerebbe a ragionare piano. Da quando nessuno più li fa piroettare su se stessi, da quando sono condannati all’immobilità, senza più palle da giocare, senza più cigolii di molle e imprecazioni di detenuti, i piccoli calciatori del biliardino sono statuette impolverate in un eterno presente fermo, senza più gol, triangolazioni, mulinelli.

Quel calcetto fotografato da Silvia Camporesi è una delle immagini che più ti arrivano dentro, un calcetto surreale nel viaggio molto reale che ci propone il Museo diocesano tridentino di piazza Duomo, nella forte proposta espositiva - in francescana sintonia con la sensibilità sociale del papa gesuita - che Domenica Primerano e Riccarda Turrina hanno voluto intitolare «Fratelli e sorelle - Racconti dal carcere» (aperta fino al 27 marzo 2017; il bel catalogo è dedicato, ineludibilmente, a padre Fabrizio Forti). Allestita con garbo suggestivo, senza effetti speciali, inaugurata alla fine dell’anno della misericordia, la mostra innanzitutto «mostra».

Perché i microcosmi carcerari - non sono visibili agli occhi di chi sta fuori. E dunque ci vuole uno sguardo indiretto, quello di fotografi autorizzati dal ministero a entrare, affinché noi possiamo vedere il mistero. Senza buonismo. Semplicemente vedere: il «capriccio con scale e ponte levatoio» acquaforte capolavoro di Piranesi che immagina una prigione-incubo; gli sguardi tristi delle donne venute da altri mondi a Rebibbia e Trapani, còlti dalla fotografa Melania Comoretto tra tatuaggi e lenzuola; il film di Barbara Cupisti «Fratelli e sorelle»; le parole del carcere incasellate da Sergio De Carli in tre cruciverba che poi rivelano le tre parole chiave «dove - sole - fragile»; la mano con sigaretta, sola sola sola, nel documentario di Juliane Biasi Hendel e Sergio Damiani, «Voci e silenzio» in via Pilati svuotata dagli esseri umani esclusi reclusi, per 130 anni nel cuore della città. E su quell’assenza gli sguardi fotografici di Fabio Maione e Luca Chistè: una mensola verde imbarcata, con due bicchieri di plastica lasciati lì, sulla parete biancazzurra sporca; le foto delle donne che tappezzano la volta di una cella, popolando i sogni sulle brande, che Chistè chiama «cappella sistina dei poveri». Bellezza che non c’è; in un luogo ormai «non», «ex», «oltre».

Quei vuoti, in via Pilati, così pieni dei fantasmi dei reclusi fantasmatici: che sono stati, dalla città luogo reale, spostati in un non-luogo marginale. Esiliati. Resi doppiamente invisibili.

Fratelli e sorelle, sì: ma asettici, inascoltabili, evaporati.

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