Il viaggio più bello è una strada di carta

Il viaggio più bello è una strada di carta

di Paolo Ghezzi

In una piccola lista che ricapitolava in ordine di relativa felicità le mète di una persona che quest'estate ha viaggiato, tra due isole, una penisola assolata e un romitaggio alpino ho letto il titolo di un romanzo. Inserimento non incongruo. Anzi. Intelligente. Già, ogni (buon) romanzo è un viaggio. E che viaggio. Spesso più appassionante e profumato e misterioso e sorprendente e destabilizzante di un itinerario fisico e geografico. Ma che cosa ci fa decidere di partire, per quel viaggio di carta (o di tavoletta digitale)?

Un suggerimento, il passaparola, la recensione, la fama, la passerella tv: certo. Ma anche, non di rado, la curiosità per un titolo, una quarta di copertina, un incipit spiazzante o semplicemente promettente. Già l'attacco, l'inizio, il «lead»: insomma, le prime decisive parole. In un libro, come in un articolo, quasi tutto si gioca nelle prime righe. Se non ti prende la prima frase, o il primo paragrafo, certo che puoi continuare il viaggio. Ma vuoi mettere come ti ci butti a pesce, con un tuffo convinto, se l'incipit ti conquista fin da subito, come un amo che t'aggancia ma senza farti male? E non dev'essere a tutti costi un pugno, uno schiaffo, una puntura. Non è obbligatorio che sia magnificamente definitivo come nella tolstojana «Anna Karenina»: «Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice lo è a modo proprio».

L'incipit può essere anche un invito dimesso, un'apparente marginalità, una sorta di incertezza sospesa.Per esempio «Guardavo attentamente la nave tutta illuminata, che un po' distante dalla banchina era ancorata nel Tago» non è un inizio travolgente neppure per gli amanti del Portogallo. Eppure prelude a un libro semisconosciuto ma intenso come «La notte di Lisbona» di Erich Maria Remarque. E così «Jem, mio fratello, aveva quasi tredici anni all'epoca in cui si ruppe malamente il gomito sinistro» non narra un evento epocale ma apre come una piccola epica «Il buio oltre la siepe» di Harper Lee, libro davvero epocale per la cultura progressista americana.

Così come «In tutte le città, tra gli edifici pubblici c'è sempre stato un ospizio per i poveri» non ci sconvolge eppure ha un respiro che prelude a un libro travolgente, il capolavoro di Dickens «Oliver Twist». E l'attacco scelto da Eco per il «Nome della rosa»? Un presuntuoso furto dell'incipit del Vangelo secondo Giovanni: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio»: irritante, indisponente. Ma se uno resiste fino al secondo paragrafo («Giunto al finire della mia vita di peccatore, mentre canuto senesco come il mondo...») le annunciate rivelazioni del vecchio Guglielmo da Baskerville ci legheranno alle pagine seguenti. Basta poco, per prendere all'amo un lettore. «Il signor Jones, della Fattoria Padronale, serrò a chiave il pollaio per la notte, ma, ubriaco com'era, scordò di chiudere le finestrelle» non è un inizio epico eppure non ci lascia scampo. Vogliamo sapere che cosa uscirà da quelle finestrelle e così leggeremo, tra ironia e rabbia, tutta «La fattoria degli animali» di Orwell.

E, a proposito di animali, «Un cane corre per strada, inseguito da un ragazzo» è l'incipit semplicissimo, povero e perfetto del bellissimo «Qualcuno con cui correre» di David Grossman. In fondo, basta che quelle prime righe ci facciano entrare nel protagonista, nella vita dell'altro: «Il cognome di mio padre essendo Pirrip e il mio nome di battesimo Philip, la mia lingua infantile non riuscì mai a cavare da entrambi nulla di più lungo o di più esplicito che Pip. Così mi chiamai Pip, e Pip finii per essere chiamato». E così è fatta: il dickensiano Pip ti ha preso e per altre seicento pagine non lo molli più. Perché vuoi sapere come e dove andranno a finire le sue «Grandi speranze». Vuoi camminare con Pip. Vuoi viaggiargli insieme.

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