Quell'imprevedibile musica del vento

Quell'imprevedibile musica del vento

di Paolo Ghezzi

Finché è brezza leggera, rinfresca musicanti e ascoltatori, esautorando i ventagli. Quando diventa folata o raffica, occhio agli spartiti non rilegati: come hanno imparato gli orchestrali della Haydn, qualche sera fa, non c'è cortile che tenga, neppure quello ben riparato e incassato tra le mura alte e potenti di Crispi e Bonporti: il vento si infila, scompiglia e scompagina, costringe gli orchestrali ad acrobazie di recupero dei fogli volanti e a buffe contorsioni, violino o viola in mano, per l'applicazione delle mollettine agli sventati leggii.

Come se il vento volesse ribadire che le tracce sulla carta sono materia fragile, che ogni partitura dovrebbe essere stampata nella memoria, ogni musica sgorgare dall'esercizio del ricordo. Come volesse ribadire di essere stato la prima musica sulla terra ascoltata dall'uomo, quando si infilava nei canyon e mugghiava nelle caverne, quando sibilava tra gli alberi o ululava sul mare. La musica estiva all'aria aperta, davanti a un rifugio o giù in città, diventa così anche una sfida col vento, strumento naturale che suona e amplifica e distorce gli strumenti inventati dall'uomo: molti dei quali risuonano del suo surrogato, il soffio che anima i flauti, gli oboi, i clarinetti, i fagotti, i corni, le trombe, i sassofoni...

Un concerto en plein air è dunque esperienza diversa da qualsiasi ascolto in sala, protetti da muri e soffitti, schermati e difesi dal tempo di fuori. Non farà la gioia dei puristi dell'alta fedeltà ma offre un brivido di contaminazione tra scrittura e natura, che bene fa la promozione turistica trentina a tenere in alto conto (e canto). Catturare il vento, «Catch the Wind» (come dice la bella canzone di Donovan) è dunque vocazione della musica. E non è un caso che il vento lo ritroviamo protagonista dell'Olandese volante wagneriano ma anche di molte ballate, dalla esistenzialista «Blowin' in the Wind» (con quella risposta alle grandi domande che nel vento si fonde e confonde), al «Vento soffia ancora», inno apocalittico-ecologista che Bertoli ha regalato a generazioni di ribelli.

Il vento risuona e annuncia novità. Scompagina, letteralmente e metaforicamente, le partiture delle nostre vite. Può anche travolgere, s'intende. Disperdere, smarrire. È necessario ma va capito, interpretato. Per questo l'augurio più vero, nella musica popolare, resta quello di Bob Dylan nella sua benaugurale «Forever young», «giovane per sempre»: «Che tu possa avere fondamenta forti, quando girano i venti del cambiamento».

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