Legge elettorale: meglio di prima

Legge elettorale: meglio di prima

di Pierangelo Giovanetti

Con il sì del Senato di ieri sera la nuova legge elettorale, finalmente, è in dirittura d’arrivo.
Non è la migliore delle leggi elettorali. Non è nemmeno la legge che molti si aspettavano dopo un decennio di Porcellum e di liste di nominati. Eppure, il testo finale a cui si è giunti, frutto dell’accordo fra due schieramenti diversi come deve essere fatto quando si cambiano le regole del gioco, è una discreta legge. Meglio dell’attuale «Consultellum» partorito dalla Corte costituzionale, che avrebbe condannato il Paese alla palude, con nessun vincitore dal voto e il trionfo dei vari Scilipoti. E di gran lunga meglio di quella schifezza scodellata dal centrodestra da solo, in fretta e furia per azzoppare l’avversario alla vigilia delle elezioni, passata alla storia come Porcellum per stessa ammissione del suo ideatore, il leghista Calderoli.
Le leggi elettorali devono rispondere a due bisogni: garantire la governabilità (cioè stabilire un vincitore che governa, e un’opposizione che controlla e si organizza per vincere le successive elezioni), e la rappresentanza (cioè non deformare clamorosamente i rapporti di forza fra chi ha vinto e chi ha perso, e dar voce anche a formazioni minori assegnando un diritto di tribuna).
L’Italicum consente ragionevolmente entrambi, favorendo stabilità, necessaria dopo vent’anni di infinita transizione, e bipartitismo, ossia chiarezza fra schieramenti oltre le eterogenee e ingestibili coalizioni che hanno caratterizzato la Seconda Repubblica e ne hanno decretato il fallimento per manifesta incapacità decisionale.
Quanto al punto più spinoso, i capilista «bloccati», va detto che saranno non più della metà degli eletti, visto che l’altra metà sarà scelta dal voto di preferenza.
In più avranno la chiarezza di essere stampati sulla lista e quindi, se impotabili, porteranno l’elettore semplicemente a votare un’altra lista, costringendo pertanto i partiti a stare più attenti sui nomi che «impongono» agli elettori.
Quando si valuta una legge, la si pesa non in astratto sulle ipotesi da manuale, ma nel confronto concreto con le leggi precedenti, e con il massimo raggiungibile, cioè la migliore sintesi possibile fra le posizioni diverse degli schieramenti chiamati a votare la riforma. Questo - va riconosciuto - è stato fatto dal Parlamento, e il risultato a cui si è giunti con il voto del Senato (spetterà poi alla Camera ratificare) è di gran lunga migliorativo delle esigenze contrapposte da cui si partiva fra i due schieramenti.
Il Porcellum assegnava il premio di maggioranza senza limite, con un vistoso e inaccettabile vulnus democratico come si è visto alle elezioni del 2013, dove Pd-Sel con soltanto un pugno di voti in più hanno raccattato decine e decine di parlamentari «in regalo».
L’Italicum stabilisce una soglia alta, il 40%: se non la si supera si va al ballottaggio, dando legittimazione piena al vincitore. Un sistema, tra il resto, molto chiaro, semplice, comprensibile da tutti, come quello per i sindaci: ci sono due nomi, cioè due partiti. L’elettore decide chi vince, e un minuto dopo la maggioranza di governo c’è.
Il Porcellum costringeva a coalizioni raffazzonate pur di avere un voto in più degli altri. Questo a scapito della rappresentanza dei piccoli partiti, sottoposti alla soglia dell’8% per entrare per esempio in Senato. Ora, dato che la governabilità è data dal premio di maggioranza e dal ballottaggio eventuale, quel limite non aveva più senso, e si è passati al 3%, consentendo così sicuramente un diritto di tribuna ai piccoli partiti senza assegnare loro il potere di veto che tanti mali - e mancanza di decisioni - ha causato all’Italia in questi anni.
Per i cultori delle quote rosa, l’Italicum offre pure una rappresentanza di genere «garantita» alle donne, con l’obbligo di equilibrio fra i generi nella scelta dei capilista, gli eletti sicuri.
Certo, resta lo scoglio dei candidati «imposti» dai partiti, sicuramente non il massimo (molto meglio a quel punto il candidato unico del collegio uninominale). Che questo, però, sia diventato motivo di scandalo per un Parlamento che è stato nominato e non eletto, fa sorridere. Se proprio risultava indigeribile la nomina a parlamentare senza la scelta degli elettori, i senatori che hanno votato no alla legge per tale motivo per coerenza e decenza facevano bene a dimettersi, seduta stante. Altrimenti l’argomento era solo pretestuoso, ammantando di valori alti obiettivi più biechi.
Se però il Porcellum, come Caligola, trasformava tutti i cavalli (spesso si trattava di asini) senatori, l’Italicum per metà degli eletti consente la scelta da parte degli elettori. Anzi, le candidature plurime, notoriamente malcostume dei partiti, questa volta rischiano di risultare un bene, perché consentiranno maggior scelta da parte degli elettori, visto che il capolista imposto dovrà dimettersi per scegliere un solo collegio, rispetto ai molti in cui sarà inserito in lista.
Quanto alle preferenze, introdotte nel massimo di due e con l’obbligo della diversità di genere, può risultare una buona scelta. È notorio, infatti, che il sistema delle preferenze plurime favorisce la compravendita di voti. Non per niente in Lombardia ha percentuali minime l’utilizzo delle preferenze alle elezioni regionali, mentre in Calabria si supera il 90%. Senza dimenticare che il referendum popolare del 1991, quello che avviò la fine della Prima Repubblica e la nascita di tangentopoli, verteva proprio sulla riduzione delle preferenze per ridurre e contenere il tasso di corruzione del voto.
Il mix collegio-uninominale (cioè il capolista bloccato) e preferenze, può essere una via d’uscita accettabile. Comunque la migliore possibile dentro un Parlamento che per forza doveva dare al Paese un nuova legge elettorale, pena la paralisi del sistema, e doveva farlo in maniera bipartisan, trovando regole comuni fra i due schieramenti (il terzo, i grillini, purtroppo anche questa volta si è emarginato da solo).
Adesso spetterà alla Camera dare il via libera definitivo.
In attesa dell’abolizione del Senato, e soprattutto dell’elezione di un Presidente della Repubblica all’altezza del ruolo, forse ieri si è messo un mattone in più nel processo di riforme per far rifunzionare un Paese ormai fermo e in decadenza da decenni.

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