Ospedali di vallata, presidio importante del territorio

Ospedali di vallata

di Franco De Battaglia

LA LETTERA

Il problema sanità tiene banco da parecchio tempo. Si propongono varie «terapie» che poi vengono puntualmente riviste e rimodulate. Quello che sconcerta è nel non intravvedere un programma chiaro: si ha l'impressione di navigare nella nebbia. L'argomento su cui però vorrei richiamare l'attenzione è quello emerso in vari congressi nazionali ed internazionali e cioè il rischio dell' «impiegatizzazione» dell'attività, la quale dovrebbe essere vissuta ancora come una professione; mi riferisco soprattutto a chi lavora negli ospedali periferici. La razionalizzazione e la messa in rete della loro attività va bene, ma togliere la disponibilità notturna e festiva e voler sopprimere primariati importanti, tipo quello di anestesia e rianimazione, è voler depotenziare e dequalificare l'ospedale, rendendolo non più «appetibile» sia per i medici che per i pazienti.

Prof. Claudio Eccher - Trento 

LA RISPOSTA

Quando l'imperatrice Maria Teresa, dopo la metà del Settecento, avviò le riforme che stanno ancora alla base della civile vivibilità del Trentino, non fece tanto leggi e regolamenti, ma iniziò a preparare persone e professioni, radicandole (questo fu il suo segreto) sul territorio. Sono i sistemi clientelari, e «borbonici» che accentrano mansioni e professioni nelle «capitali», presso le corti di chi comanda o è più ricco. Una buona amministrazione ha i suoi funzionari sui fronti della socialità, non nei palazzi dove si fa carriera. La prassi asburgica era che «capitani distrettuali», i giudici, i medici, gli insegnanti risiedessero dove operavano (diciamo a Cles, a Tione, Malé, Cavalese, Borgo...). Le periferie non andavano sguarnite di servizi e di classe dirigente. Questa visione è stata poi ripresa dall'Autonomia con il Pup kessleriano del 1967, che andò concorrente rispetto alla megalopoli atesina (un'unica linea urbanizzata da Rovereto a Bolzano) che molte forze economiche auspicavano. Venne scelto invece di presidiare i territori con la «città diffusa».
Maria Teresa istituì accademie e scuole magistrali e in quattro anni (che tanti bastano) ebbe pronti maestri, ufficiali, medici, chimici da inviare sul territorio, e anche preti, perché i parroci erano pagati dal governo, ma dovevano uscire dalle «curie» e dai conventi e abitare i paesi, un parroco ogni 700 abitanti. Non occorreva che fossero «santi», dovevano essere capaci di ascoltare, insegnare e aiutare. Di qui, anche nel Trentino, nacque la Cooperazione.
La lezione da trarre è che le riforme vere si fanno investendo sulle professionalità e sulle presenze, non tagliando i costi, bloccando i «turn over» (un autentico suicidio per le istituzioni, perché i giovani imparano e si formano il carattere lavorando «insieme») non teorizzando pendolarismi logoranti. I quali portano chi vi è costretto a cercare di andarsene al più presto e chi li subisce a perdere il rapporto di fiducia essenziale nei confronti di chi esercita una professione, in ospedale come a scuola. Se ad ogni visita trovo un medico diverso, che pur applica i medesimi «protocolli», cerco un ospedale «stabile» fuori provincia, non faccio mica il «totomedico» a Trento.
Non sappiamo cosa accadrà degli ospedali periferici. Apprezzando la piena onestà intellettuale (non solo) dell'assessore Borgonovo Re non dubitiamo della lealtà dei suoi sforzi a fronte di una situazione difficile. La bozza di piano sanitario, peraltro, è ancora abbastanza incompleta per prestarsi a vistose modifiche. Tre cose ci sembra di poter rilevare. La prima è che se il Trentino dovesse seguire i parametri nazionali, potrebbe subito gettare alle ortiche la sua storia e la sua autonomia. Il «parametro» globale di una terra con 500 mila abitanti è di essere una periferia suburbana, il classico sobborgo di Milano. Per fortuna non è così. La seconda è la carenza di conoscenza psicologica delle valli trentine, sempre a rischio diaspora. Se si chiude o si ridimensiona Tione, o Cavalese, o Borgo? la gente non verrà a Trento, già superaffollato, con professionisti bravissimi e dedicati, ma quasi impossibilitati a contatti umani, ma andrà a Bolzano, a Merano, a Brescia, a Verona, a Pavia, come già sta andando. La terza è che occorrerebbe ripartire dalla valorizzazione professionale («Ridateci i primari», non «direttori di carte, turni e spese») motivando anche realtà periferiche dove un giovane può imparare senza essere ridotto a quegli umilianti orari impiegatizi, imposti anche ai medici di base che il venerdì staccano. Occorre incentivare la passione di servizio in chi sceglie la professione medica, non frustrarla. O davvero bisogna andare con «Medici senza frontiere» per sentirsi realizzati? Vorrà dire che se chiuderanno gli ospedali le valli «importeranno» qualche ospedale da campo dalle zone più disagiate!

fdebattaglia@katamail.com

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