L’esaltazione del rischio: «vincere o morire»

di Alessandro Beber

Mercoledì 5 novembre faceva tappa a Trento l’European Outdoor Film Tour (E.O.F.T.), rassegna che ogni anno raccoglie i cortometraggi più spettacolari realizzati in tutto il mondo, per quanto riguarda alpinismo, sci, kayak, mountain bike, etc. Sono andato a vederlo con una certa dose di aspettativa, e sono tornato a casa con una mezza delusione.

Nulla da dire sull’eccezionale qualità delle immagini, davvero stupefacenti, e passi anche il fatto che dietro alla maggior parte dei lavori non c’è alcuna storia, o comunque poca; quello che mi ha lasciato più perplesso è invece il messaggio di fondo che traspirava da tutta la rassegna, che si potrebbe riassumere con un militaresco «vincere o morire».

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I protagonisti delle avventure più disparate (parkour, arrampicata, speloeologia...) esprimono l’eventualità di NON sopravvivere a questa o quell’altra impresa con una semplicità disarmante. «Ma sì, faccio quello che mi piace, è solo un gioco... però ho un alta probabilità di morire, ma non è un problema, ne vale la pena».
 
Ne vale la pena in nome di cosa? Non possiamo saperlo con certezza, ma tutti gli indizi porterebbero a pensare «in nome della gloria!».

Ora, non voglio sembrare bigotto nella mia valutazione: conosco il rapporto controverso con il rischio che si viene a creare nello svolgimento di determinate attività... è il pane di tutti i giorni per chi arrampica. Lo sforzo mentale richiesto per affrontare e superare le proprie paure richiede un lavoro di introspezione notevole che diventa poi fonte di soddisfazione e crescita personale.

Però solitamente si lavora sul divario tra pericolo percepito e pericolo reale, o comunque ci si espone a dei rischi «calcolati» ed adeguatamente compensati (dalla preparazione, ad esempio).
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Il concetto è che in molte attività il pericolo esiste e bisogna esserne coscienti, ma uno non ci si butta dentro a capofitto senza alcun calcolo delle potenziali conseguenze, con la leggerezza di un ragionamento del tipo «se mi va bene ok, altrimenti se va male muoio, pazienza...».

Probabilmente i fatti nella realtà non stanno esattamente così (qualche matto c’è, ma la maggior parte degli atleti è attenta e scrupolosa nella preparazione dei propri progetti), ma allora mi sembra demenziale far passare un messaggio del genere.

Mettersi in gioco, mettersi alla prova per migliorare se stessi è un obbiettivo condivisibile, ma non altrettanto giocarsi la pellaccia ogni volta per sentirsi dire «bravo» da più gente possibile.

La cosa incredibile è che in alcuni casi si esalta addirittura questa pericolosità anche là dove questa non c’è, tanto per far colpo su un pubblico non specializzato che fatica a discernere ciò che è talento, follia o semplice mistificazione.

Peccato, perché a volte basterebbe raccontare in maniera onesta l’eccezionalità del mondo reale.

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