Tante scuse

Dagli egizi alle tenebre, da lettere alla biblioteca: ecco come riuscire a non fare le cose e non svecchiare la città

di Leonardo Pontalti

L'altro giorno corricchiavo in ciclabile, in via Sanseverino. Se qualcuno mi avesse visto, all'altezza del sottopasso di via Verdi, avrebbe scorto un pazzo in maglietta, pantaloncini e scarpe da ginnastica che scoppia a ridere dal nulla.

Detto che la pazzia non è da escludere, le mie risate - invero amare - erano sgorgate dalla vista del piazzale, dove dovrebbe sorgere la bibliotecona dell'università. Correvo, ho dato un'occhiata al piazzale, a via Verdi e ho provato a vedere il Duomo. Ed è li che non mi sono trattenuto.

Perché per vedere la facciata della cattedrale, dall'estremità di via Verdi o dal piazzale, bisogna mettersi d'impegno. E può non bastare. E non ho potuto impedire alla mia mente di ricordare un pomeriggio di un anno e mezzo fa.

In quel pomeriggio, Mario Botta era sceso a Trento dal suo Ticino per illustrare al consiglio comunale (per la seconda volta dopo la prima, nel 2006) il progetto. E tra una serie spassosa di osservazioni (Coradello: «La struttura presenta richiami alla massoneria con la sua struttura triangolare»; Maffioletti: «È simile alle piramidi egiziane, troppo ambizioso per Trento»), arrivò la migliore di tutte.
Fu di Salvati, che spiegò come il progetto vada rivisto, non vada bene, perché «la biblioteca oscurerà la vista del Duomo».

Ho perso il ritmo della corsa, per provare a capire di quale vista si potesse parlare. Poi è intervenuto il riso amaro, quasi isterico: l'Università nel 2003 sperava di veder la biblioteca in piedi nel 2009. L'anno scorso, dopo le osservazioni da cabaret, Andraatta promise che entro fine ottobre 2012 sarebbe arrivato il via libera del consiglio comunale. Dall'Università fanno sapere che tutto è fermo, in attesa che il Comune si muova.

Il ricordo di come l'arrivo della bellissima facoltà di lettere (chiedere a chi ci studia o chi ci ha passato la notte dei ricercatori) fosse stata a lungo frenata dai timori per l'aumento del traffico in via Gar o per l'oscurità che la struttura - una delle più luminose, trasparenti e vetrificate della città - avrebbe portato sulla via, se la gioca con gli egizi, i massoni e le visuali inesistenti rovinate.

Il problema, forse, è che le scuse per menare il can per l'aia spuntano così strambe e grosse che si finisce per ritenerle sensate. O meglio, comode per trasformarsi in alibi.

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