Mamme e carriere bloccate: rinuncia o scelta?

di Patrizia Todesco

Donne, lavoro e famiglia. Quanto parlare di questo argomento. I problemi su questo fronte sono tanti, due in particolare. Da una parte, come ha denunciato la Uil, ci sono le tante donne che al rientro della gravidanza non se la sentono di tornare al lavoro e decidono di dimettesi. Si parla di 300 mamme ogni anno. È un problema di carenza di servizi e di costi. Se a una donna mandare il proprio figlio all’asilo costa mezzo stipendio e il servizio non risolve nemmeno il problema perché l’orario non combacia con il suo è evidente che la tentazione di stare a casa è alta. Va anche aggiunto che ci sono casi in cui alle donne, al momento dell’assunzione, viene fatto firmare un foglio di dimissioni in bianco che al rientro dalla gravidanza viene puntualmente tirato fuori dal datore di lavoro.


Sul problema della conciliazione si dovrebbe fare molto di più e allora sicuramente anche le dimissioni diminuirebbero.  È anche una questione di cultura, perché nessuna donna dovrebbe sentirsi in colpa quando deve chiedere un’aspettativa per un figlio malato o un imprevisto familiare. Ma se per un lavoro, a tempo pieno o part time “normale”, i margini per una maggiore conciliazione ci sono, ritengo invece che per le donne che vogliono fare carriera, che vogliono emergere e arrivare al top, la questione sia decisamente più complicata se non impossibile. Il tempo delle donne, l’ho già detto e lo ripeto, è come una coperta un po’ corta. Se tiri da una parte lasci scoperto dall’altra e viceversa.

 

Non fare carriera, dal mio punto di vista, non è una rinuncia. Credo che per molte donne sia una precisa scelta. Una scelta di privilegiare altro. Lo ha detto bene e chiaramente Anne-Marie Slaughter, ex membro dello staff del segretario di Stato americano Hillary Clinton e professoressa a Princeton, quando ha lasciato la posizione alla Casa Bianca per poter passare più tempo con i due figli. Oggi non c’è dubbio che anche molti uomini facciano la loro parte. Ci sono papà presenti, collaborativi. Ma ci sono compiti che secondo me non sono delegabili. Il tempo trascorso con i figli non è solo questione di ore ma anche di qualità, ma è evidente che c’è un minimo. E quel minimo è un diritto per i figli, ma anche per le donne. In tutto questo c’è però un grande rischio. Se le donne con figli non vogliono o non possono arrivare ai vertici delle carriere senza penalizzare la famiglia, rimarrà per sempre la questione che a guidare e decidere saranno sempre gli uomini ai quali, ammettiamo, la questione della conciliazione importa (non a tutti), ma senza esserne troppo coinvolti. Ed allora è come un gatto che si morde la coda.

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