Se un festival non vale una fiera

Le bancarelle mettono tutti d'accordo. Gli incontri, non sempre. Non solo a Trento

di Leonardo Pontalti

Se volete, è uno dei piccoli misteri del mondo. Anzi, dell'umanità, dato che fin dall'antichità è risaputo come l'uomo sia una animale sociale (Aristotele) e non sia fatto per rimanere solo (Seneca). E se l'uomo è un essere per sua natura sociale, il commerciante è per sua scelta, e necessità, essere che si sonstenta col danaro. Eppure, eccoci al mistero di cui sopra, pare esserci un elemento che confuta queste tesi, apparentemente inoppugnabili: i festival.

 

Già, i festival. Appuntamenti figli del nostro tempo, che hanno mandato in soffitta i vecchi convegni aprendoli a tutti così come blog e social network stanno mandando in soffitta, aprendo l'informazione a tutti, quotidiani e telegiornali, almeno per come eravamo abitauati a farli e vederli fino a qualche lustro fa.

Festival, massima espressione della partecipazione, della condivisione, della conoscenza. E, si direbbe sulla carta, massima espressione della capacità di un evento di far convogliare migliaia di persone in un luogo, facendoli vivere in quel luogo. E ancora dunque, molto più prosaicamente facendoli spendere. E facendo la gioia di chi vive di chi spende.

 

Eppure non tutti i festival sembrano confermare le teorie sulla carta. A Trento e Ferrara ne esistono due, diversi ma simili (l'uno tratta principalmente di economia, l'altro di giornalismo, ma entrambi portano bei pezzi di mondo a domicilio degli ospiti) e pressoché coetanei. Quello dell'Economia, nato nel 2006, e quello della rivista Internazionale, promosso per la prima volta nel 2007.

Sono entrambi appuntamenti ormai affermati, apprezzati, capaci di attirare migliaia di partecipanti e giustamente visti come fiori all'ochiello delle rispettive città. Ma entrambi, costantemente alle prese con qualche grana, alla faccia di Aristotele e Seneca.

 

Due facce della stessa medaglia, per la precisione: da queste parti, da anni ormai la domenica conclusiva dell'appuntamento è tra quelle scelte dal Comune come una di quelle d'oro “fuori stagione” ovvero uno dei giorni del Signore in cui i commercianti possono tenere le loro botteghe aperte. E regolarmente, anno dopo anno, non mancano i malumori proprio dei commercianti, che ripetono come si tratti di un'apertura sprecata. Perché – difficile dar loro torto – i relatori difficilmente compreranno un tailleur o un paio di pantaloni proprio a Trento. E il problema è che sono i trentini, a non riversarsi in piazza e approfittare per fare la spesa o comprare qualcosa tra un Saviano e un Bauman, tra una Fornero e una Camusso.

 

A Ferrara, il problema è l'opposto. Strade e piazze stracolme – soprattutto quest'anno, in cui Internazionale è arrivato dopo il terremoto, a ridare fiducia e fiato a una città ancora spaventata – ma negozi aperti solo parzialmente e tessuto sociale poco propenso a tenere acceso il fuoco sotto un piatto ricco, anziché ficcarvicisi.

Tanto da costringere il sindaco della città estense a lanciare l'allarme: “Effettivamente – spiega senza troppi giri di parole all'Adige il primo cittadino Tiziano Tagliani – le forze economiche della città non sempre sono pronte a partecipare. Ci chiedono di promuovere eventi poi quando si tratta di partecipare, latitano. E un evento come quello di Internazionale ha bisogno di risorse”.

 

Che non mancano, ma arrivano quasi tutte dall'esterno: tra i main sponsor dell'evento, pochi sono quelli ferraresi. Un problema che Trento non ha, per ora, dato che l'Ente pubblico non si tira indietro e tra i privati – al netto dei privati pubblici tipo i marchi della cooperazione – figurano nomi di spicco come Mosna (Diatec), Marangoni (idem) Bressan (l'Isa con la Btb per intercessione di Intesa) e così via. A Trento manca ciò che Ferrara ha, e viceversa: la gente del posto per le strade da un lato, i soldi del posto dall'altro.

“Certo è una cosa bizzarra – analizza il direttore di Internazionale, Giovanni De Mauro – perché noi siamo contenti di venire a Ferrara, e anche i ferraresi ci pare lo siano. Felici di averci, e del fatto che portiamo loro un po' del mondo in casa. Poi è ovvio, ristoratori e albergatori devono dircelo loro, se sono felici o meno di averci. Non pretendiamo di essere accolti con i massimi onori, se ci dicessero che per loro avere o non avere il festival è uguale, ne prenderemmo atto. Certo è che noi non vorremmo lasciare Ferrara, ma senza i fondi necessari dovremmo metterci a far pagare tutti gli appuntamenti, riducendo la capacità di spesa dei visitatori e forse anche il loro numero. Sarebbe un male per tutti, insomma”.

 

E a Trento? “Sicuramente chi si occupa di accoglienza è entusiasta del festival”, spiega Paolo Collini, preside di Economia e tra i componenti del comitato editoriale del Festival dell'Economia: “Insomma, chi si occupa di ristorazione e ospitalità, non ha problemi. Ma siamo noi i primi a renderci conto che per tutte le altre categorie di negozianti, il problema ci sia, irrisolto anno dopo anno. E se è comprensibile come difficilmente chi viene da fuori si conceda dello shopping, forse anche i trentini non lo fanno semplicemente perché preferiscono concentrarsi sul programma, sugli eventi, e lasciare gli acquisti ad altri momenti”

Ma come coniugare così l'esigenza di proporre una città viva, con quelle – che gli stessi organizzatori comprendono – di chi vorrebbe chiudere? E perché gli esercenti non comprendono l'importanza di partecipare, anche senza un ritorno diretto, ma come parte di una cartolina buona per ritorni (fisici ed economici) futuri?

 

“Perché per molti di loro si tratta di un'esternalità”, spiega Collini: “Ovvero, sanno che clienti non ne avranno, e lavorano per garantire ventaggi ad altri, ovvero alla città in generale che fa una bella figura e dà una bella impresione di sé”. L'obiezione è che sul lungo periodo gli elementi citati sarebbero un vantaggio anche per loro, ma Collini frena: “Pensare al lungo periodo è difficile, se manca l'incasso subito, è difficile non riuscire a comprenderli. L'importante – spiega Collini – è che la città non sia un deserto. Ho presente alcune giornate di passate edizioni in cui la città era davvero triste. Ora, credo che sia fondamentale che bar e ristoranti siano aperti, per tutti gli altri commercianti credo sia giusto arrivare ad aperture selettive: un negozio di prodotti tipici, o una libreria, ha i suoi interessi ad aprire. Un negozio di grandi marche d'abbigliamento che ormai ha punti vendita ovunque, ne ha molti meno”.

Una selezione cui – con la liberalizzazione degli orari – si arriverà spontaneamente.

 

Certo, il mistero resta: come una fiera attiri nelle città anche chi non cerca lo zucchero filato e il mandorlato, e un festival non ci riesca anche nei confronti di chi non è interessato ai temi trattati, ma solo ad una città affollata. Come in fiera. Uomini, sociali sì, ma coi loro bei distinguo. Povero Aristotele.

 

Twitter @leopontalti

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