Governo Draghi, la scelta dei ministri: retroscena e "mal di pancia". Forti tensioni in Forza Italia e nel M5S

Tra riconferme, nuovi ingressi, ritorni eccellenti. Un governo ibrido, a metà strada tra il politico e il tecnico e che nella sua componente partitica rappresenta l’intero arco costituzionale (Fratelli d’Italia escluso). Finisce 15 a 8.

Quindici appunto i dicasteri politici con uomini espressione di Pd, Leu, M5s, Iv, Forza Italia e Lega e 8 tecnici, tra costituzionalisti, economisti ed imprenditori. Nove i dicasteri senza portafoglio, 14 con.



Mario Draghi guarda al futuro con un occhio al passato, e per alcuni ministeri chiave punta sulla continuità. Indicativa ad esempio la riconferma al Ministero della Salute di Roberto Speranza, l’uomo di Leu che ha gestito la sanità nell’annus horribilis della pandemia. Altre riconferme riguardano Luigi Di Maio che rimane saldo al timone alla Farnesina, mentre Luciana Lamorgese resta titolare del Viminale.

Il dem Dario Franceschini proseguirà a gestire il Mibact anche se il ministero, a sentire Mario Draghi a margine del colloquio con Mattarella, verrà rivoluzionato diventando un Ministero della Cultura e che nei piani del nuovo premier verrà scorporato dal Turismo.



Il pentastellato Federico d’Incà continuerà a mantenere i Rapporti con il Parlamento, Lorenzo Guerini del Pd resta alla Difesa, la renziana Elena Bonetti alle Pari opportunità. Poi c’è chi resta al governo ma cambia l’indirizzo del proprio dicastero, come la grillina Fabiana Dadone che dalla Pubblica amministrazione passa alle Politiche giovanili, o come il collega Stefano Patuanelli, che lascerà lo Sviluppo economico per l’Agricoltura.

Alla Lega va un ministero di peso per un personaggio altrettanto di peso, il numero 2 e grande regista dell’operazione governista del Carroccio, Giancarlo Giorgetti, al quale è stato affidato lo Sviluppo economico.



Poi ci sono i «ritorni» tutti in arrivo dalle fila forziste, come Renato Brunetta scelto per la Pubblica amministrazione, Maria Stella Gelmini alla quale vanno gli Affari generali e autonomia, e infine Mara Carfagna, che si occuperà di Sud e Coesione territoriale. Ritorno pure per la leghista Erika Stefani, già responsabile degli Affari regionali nel Conte I e che da domani si occuperà di Disabilità. Alla Lega pure il nascente ministero del Turismo, dicastero con portafoglio che sarà affidato a Massimo Garavaglia.

Torna a occupare un posto nel Consiglio dei Ministri Andrea Orlando; l’ex Guardasigilli e attualmente numero 2 del Pd guiderà il Ministero del Lavoro. E poi ci sono i tecnici. Oltre alla riconfermata Luciana Lamorgese, la lista contiene il nome di uno tra i manager italiani più conosciuti all’estero, Vittorio Colao, designato da Conte lo scorso aprile per guidare la task force per la cosiddetta «Fase 2» e che da ministro si occuperà di Innovazione tecnologica e transizione digitale.

La costituzionalista Marta Cartabia, prima donna a guidare la Corte costituzionale, si occuperà di Giustizia. L’economista Daniele Franco, direttore generale della Banca d’Italia e presidente dell’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni, guiderà l’Economia, all’ex rettore dell’Università di Ferrara Patrizio Bianchi l’Istruzione, e al medico e accademica Maria Cristina Messa l’Università.

L’economista Enrico Giovannini si occuperà di Infrastrutture ed infine al fisico Roberto Cingolani sono state consegnate le chiavi del superministero dell’Ambiente e per la transizione ecologica.


Fibrillazioni in Forza Italia: premiata solo l'ala moderata, stop ai filo leghisti

Il varo del governo Draghi scuote profondamente il centrodestra. Sia nella Lega, sia soprattutto in Forza Italia, sembrano uscire fortemente ridimensionate le aree ‘sovranistè dei due partiti, e premiate, secondo alcuni in modo eccessivo, i rispettivi esponenti più ‘moderatì. A caldo emerge così che le indicazioni dell’ex Presidente della Bce non avrebbero rispettato gli equlibri interni.

Dopo aver incassato tre ministri, Matteo Salvini conferma l’impegno della  Lega a lavorare «pancia a terra» per rilanciare il Paese. Tuttavia l’indicazione di Giancarlo Giorgetti e Massimo Garavaglia potrebbe non essere stata perfettamente in linea con i desiderata del ‘Capitanò.
Dentro Forza Italia, invece, scoppia il caos: si racconta di una telefonata direttametnte di Silvio Berlusconi a Mario Draghi per non aver ricevuto i ministri che si sarebbe aspettato, cioè uno di peso, per l’ex Presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, e uno di livello inferiore.

E soprattutto per non aver tenuto in contro degli equlibri interni. Tensione che sta scoppiando nei gruppi in ebollizione e nelle chat infuocate. Il gruppo azzuro del Senato, infatti, non è stato rappresentato, visto che i tre ministri sono tutti deputati. Ciscostanza che viene vista come uno sfregio nei confonti di chi ha lottato per mantenere il gruppo unito nelle difficili settimane scorse.
Inoltre, tanti stanno commentando con disappunto anche del ‘gran rifiutò di Antonio Tajani a un dicastero senza portafoglio.

Al centro dello scontro le nomine di Mara Carfagna a ministro al Sud e Coesione e di Renato Brunetta, considerate come la vittoria dell’area che fa capo a Gianni Letta su quella tradizionalmente più vicina alla Lega. La vicepresidente della Camera, da settimane, infatti, viene indicata come la leader di quella pattuglia che sarebbe stata sul punto di costruire il gruppo dei ‘responsabilì per sostenere il Conte ter. Altri addirittura la considerano ormai da tempo quasi fuori dal partito.

Detto questo tutta la giornata è stata vissuta con grande ansia dal cosiddettòcentrodestra dei responsabilì come è stato battezzato da Salvini e il Cavaliere al termine del loro incontro.
Prima dell’arrivo di Draghi al Quirinale, all’interno della Lega era emersa una certa inquietudine. In tanti lamentavano il fatto che in questi giorni da parte della Lega c’era stato massimo rispetto nei confronti di Draghi, mentre lui  non era stato altrettanto disponibile. «Ci fidiamo di lui - raccontano - ma ci piacerebbe essere trattati con maggiore attenzione: non siamo la Lega del 4% ma ormai da anni il primo partito italiano». La Lega ricordava nel pomeriggio che in caso di ministri politici sarebbe stato giusto chiedere un confronto.

Invece, pare che sino alla fine nessuna interlocuzione. E non è un caso che in effetti, la soluzione finale pare non sia stata completamente soddisfaciente.

Nel pomeriggio, dalle parti di Forza Italia,  nessuna voglia di fare polemiche ufficiali, anche perchè - si fa notare - Silvio Berlusconi è stato i primi ad annunciare il sostegno al governo guidato dall’ex numero uno della Bce. Tuttavia, anche da quelle parti era un certo malumore per il cosiddetto «metodo Draghi» si è fatto  fatica a nasconderlo. Gli azzurri infatti avrebbero voluto maggiori informazioni dal premier incaricato su squadra e programma mentre sino all«ultimo il partito è stato tenuto all’oscuro. In più a scatenare qualche polemica, in chiave interna, era la lista di nomi proposta dal vertice di Fi per la squadra di governo: Antonio Tajani, Anna Maria Bernini, Renato Brunetta e Maria Stella Gelmini, le quattro proposte che sarebbero arrivate sulla scrivania del premier incaricato. Una rosa di nomi su cui diversi forzisti avrebbero storto il naso lamentando il fatto che venissero indicate sempre le stesse persone che, da anni, ricoprono già ruoli di primo piano nel partito. Poi la soluzione finale ha gettato altro sale sulle ferite.


 

Ancora alta tensione nel M5S, Di Battista se ne va

«Buon lavoro al presidente Draghi e a tutto il governo. Un in bocca al lupo in particolare Luigi Di Maio, Stefano Patuanelli, Fabiana Dadone, e a Federico D’Incà, ministro dei Rapporti con Parlamento.  E poi un augurio al nuovo »super ministro« all’Ambiente e alla transizione ecologica, Roberto Cingolani. Un profilo e un risultato che abbiamo fortemente voluto. Adesso subito al lavoro!». Lo scrive il M5S in un post sul suo account ufficiale.

Secondo alcune fonti del Movimento, Beppe Grillo sarebbe particolarmente soddisfatto per la nomina di Cingolani che, stando alle stesse fonti, avrebbe lui stesso suggerito a Mario Draghi.

Ma si addensano nubi sulla tenuta del gruppo soprattutto al Senato. Sulla nuova governance. Sullo stesso futuro del Movimento 5 Stelle.

Lo strappo di Alessandro Di Battista aumenta di intensità il sisma provocato dal sì su Rousseau al governo Draghi. Nell’ala governista, anche a taccuini chiusi, si sottolinea come quello del Dibba sia un arrivederci e non un addio. E che, quando si tornerà al voto, anche l’uomo delle piazze rientrerà in campo. Ma il suo strappo accresce le incognite sulla nuova governance del Movimento per la quale l’ex deputato era dato certo favorito.

Il M5S vive la giornata della formazione del governo Draghi in sospeso e in fibrillazione per la «corsa» ai dicasteri dei suoi «big». Una serie di riunioni ristrette si succedono fino all’annuncio del premier incaricato. Alla fine saranno 4 gli esponenti del Movimento inclusi nel nuovo esecutivo. Nomi forti dell’universo pentastellato (Di Maio, Patuanelli), più la Dadone e D’Incà, tradizionalmente considerato vicino a Roberto Fico. Ed il cambio di esecutivo segna anche, di fatto, un mutamento di prospettiva nella leadership governista dei Cinque Stelle, che perde due degli uomini che erano più vicini a Giuseppe Conte, Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro.

Grillo, secondo alcune fonti M5S, avrebbe manifestato la sua soddisfazione per l’arrivo di Cingolani al ministero della Transizione Ecologico. Ma nel M5S, monta anche l’ira dei dissidenti. «È il ministero dell’Ambiente cambiato di nome, altro che super-dicastero chiesto da Grillo», protestano i «descamisados», al Senato capitanati da Barbara Lezzi. E la fronda interna si organizza e potrebbe anche allargarsi. Mattia Crucioli, Elio Lannutti, Rosa Abate, Elio Lannutti, Bianca Laura Granato vergano nei loro post su Fb l’ira dei «contras» a Draghi. I «no», a questo punto, potrebbero crescere sull’onda di quel «ne valeva la pena?» scritto da Di Battista subito dopo la lista dei ministri. E la fronda potrebbe arricchirsi di qualche astensione e di - poche - assenze strategiche. Anche se Di Battista si smarca da qualsiasi regia. «Chi ha votato no su Rousseau non è patrimonio mio», spiega prefigurando altri mesi «sabbatici». E poi, sui dissdenti, pesa anche il diktat dei vertici: «il voto su Rousseau è stato chiaro, chi vota non in linea dovrebbe dimettersi».

I prossimi giorni, per il M5S, saranno ancora quelli della tempesta. E, il 16 febbraio, ad attendere i pentastellati ci sarà un voto a questo punto cruciale: quello sulla governance.

Se gli iscritti diranno sì, come è accaduto nella prima convocazione, il Movimento sarà chiamato a comporre il Comitato dei 5. E sarà tutt’altro che facile visto che una corrente interna, con l’addio di Di Battista, è a dir poco dimezzata. Con una parte dei «duri e puri», a cominciare da Danilo Toninelli o Nicola Morra, che sembrano intenzionati a non seguire la fronda dei «no». Restando nel Movimento e provando a scalarlo.

Ad agitare le acque c’è poi l’asse tra l’ex deputato e Davide Casaleggio, tra i primi ad applaudire il «Dibba», con il quale il rapporto è crsciuto man mano che è peggiorato quello tra il figlio di Gianroberto e l’ala governista. Al momento Casaleggio ha ancora il «coltello dalla parte del manico», ovvero la piattaforma Rousseau. L’eventualità è che la nuova governance sia formata da chi, di fatto, incassa solitamente «più click» dagli attivisti. E sono, usualmente, i più barricaderi. Infine, c’è il ruolo di Beppe Grillo, artefice del terzo governo a partecipazione pentastellata e di una svolta Green che, nelle intenzioni del Garante, rappresenta il futuro prossimo del M5S.
Futuro con cui pende, in ogni caso, l’ombra della scissione.

«Scissione, caos, Intifada! Da otto anni propalano la nostra fine, rovina, sparizione. E invece siamo sempre qua», è il post pubblicato dall’account ufficiale del M5S. Ma il rischio c’è.
Con un’appendice: quella del simbolo sul quale, senza un ritorno al sodalizio tra Casaleggio e Grillo, potrebbe scatenarsi una vera e propria guerra fratricida.


 

Pd soddisfatto con tre ministeri di peso

Il Pd incassa tre ministeri, anziché i due previsti, risolvendo una sorta di «competition» interna tra leader delle principali correnti Dem.

Una soluzione che quindi soddisfa il Nazareno, che ora guarda con attenzione al nuovo governo che ha un profilo più marcatamente politico di quello che si pensasse inizialmente. Questo permette a Nicola Zingaretti di sperare che anche il tema delle riforme istituzionali e di quella elettorale, che sono fuori dall’agenda di governo, possa essere affrontato insieme dai partiti che sostengono il governo e non lasciato alla logica di maggioranze parlamentari variabili.

Nei giorni scorsi si era saputo che al Pd Draghi avesse assegnato due dei posti destinati ai ministri politici, come agli altri partiti di uguale peso parlamentari.

In ballo Dario Franceschini, Andrea Orlando e Lorenzo Guerini, leader delle tre principali correnti, con i primi due che hanno sostenuto alle primarie Zingaretti, e Guerini a capo della minoranza di Base riformista assieme a Luca Lotti.

Alla fine tutti e tre sono nella squadra di Draghi, grazie ai buoni uffici del presidente Mattarella che ha voluto la continuità alla Difesa, ponendo per cosi dire Guerini in «quota Quirinale», come le ministre Cartabia e Lamorgese. La soluzione da stabilità al partito che ha avviato un dibattito interno che, secondo le minoranze, dovrebbe portare dopo le amministrative e la fine della fase acuta del Covid, ad aprire la stagione congressuale. In questo Base riformista, ma anche il cosiddetto partito dei sindaci del Nord, spera di lanciare Stefano, il quale ancora oggi si è mostrato cauto. Certo, i tre ministri Dem sono tutti uomini, e Zingaretti si è quindi impegnato a «riequilibrare» la squadra del Pd al governo con più sottosegretarie donna. In ogni caso Draghi sarà sostenuto dal P «con lealtà e convinzione» ha detto il segretario.

Ma al di là degli aspetti interni c’è il tema delle riforme istituzionali e in particolare della legge elettorale proporzionale, che Zingaretti ha rilanciato giovedì alla direzione, come in giornata anche il presidente della Commissione Affari costituzionali Dario Parrini. Con la precedente maggioranza il cosiddetto Germanicum, il proporzionale con soglia al 5%, si era bloccato per il veto di Iv e nei giorni scorsi Salvini ha dichiarato la propria contrarietà. Tuttavia mentre un governo puramente tecnico avrebbe reso forse più complesso un confronto tra partiti sulle riforme istituzionali, un governo tecnico-politico favorisce il dialogo tra partiti su un più ampio spettro di temi, e quindi al Nazareno si spera che ciò possa favorire il dialogo anche sui temi istituzionali.

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