Salute / Ricerca

Prevedere le conseguenze del trauma cranico: la scoperta di un nuovo “marker” porta anche la firma di una dottoressa trentina

Pubblicata sulla prestigiosa rivista internazionale Science Translational Medicine la ricerca congiunta è anche frutto di Sandra Magnoni, che lavora ad Anestesia e Rianimazione del Santa Chiara

di Gigi Zoppello

TRENTO. C’è anche una dottoressa e ricercatrice trentina, Sandra Magnoni, fra gli autori di un importante studio sul neurotrauma, pubblicato in questi giorni sulla prestigiosa rivista internazionale Science Translational Medicine, ed in breve citato e riportato da decine di siti di riferimento di tutto il mondo. Lo studio è finanziato dal programma europeo ERA-Net NEURON-2016 “External Insults to the Nervous System” e vede la dottoressa del Santa Chiara tra i co-investigators di un team internazionale italo-svizzero-inglese.

Lo studio si intitola “Axonal marker neurofilament light predicts long-term outcomes and progressive neurodegeneration after traumatic brain injury”, ovvero “La proteina di origine cerebrale chiamata NFL, rilevata nel sangue di pazienti ricoverati per trauma cranico, è in grado di predire la prognosi a distanza e lo sviluppo di malattia neurodegenerativa nel neurotrauma". I dati si riferiscono a 197 pazienti affetti da trauma cranico reclutati in 8 trauma centers, incluso l'Ospedale S. Chiara di Trento.

Dottoressa, perché questo studio – che sembrerebbe riservato a pochi specialisti – è importante?

«Stabilire una prognosi accurata in chi subisce un trauma cranico (in sigla TBI) è fondamentale per stabilire le cure e le terapie riabilitative più appropriate e per fornire indicazioni il più possibile precise ai pazienti e alle lore famiglie. Ma finora c’era un problema: determinare le conseguenze a lungo termine del trauma cranico sul cervello non è cosa semplice, soprattutto perché le metodiche di uso clinico non consentono di misurare accuratamente tutti gli effetti che il neurotrauma produce, in particolare attraverso un tipo di danno potenzialmente devastante, che tecnicamente si chiama danno assonale e che colpisce delle strutture chiamate assoni.»

Quali sono le novità della ricerca?

«Fornisce nuove e importanti conoscenze individuando nella concentrazione di una proteina, il neurofilamento (NfL), una nota componente strutturale degli assoni, un indicatore attendibile di danno assonale. In sostanza, si dimostra che NfL aumenta in maniera signifcativa dopo il trauma, con concentrazioni massime che vengono raggiunte entro alcune settimane dall'evento, e in alcuni casi, con livelli che si mantengono anormali fino ad un anno. Valori aumentati di NfL si associano alla presenza di danno assonale rilevato alla risonanza magnetica cerebrale e predicono lo sviluppo a distanza  di atrofia cerebrale, un reperto che si osserva nei malati con Alzheimer, e una prognosi peggiore».

Con quali applicazioni?

«Siamo ancora lontani dalla creazione di un test da usare in corsia, ma si è aperta una prospettiva.  In parole povere: è stata dimostrata la correlazione fra danno assonale, misurato con varie metodiche, e livelli del biomarcatore NfL. Portando alla conclusione che la misurazione dei livelli di questa proteina nel plasma rappresenta un valido ausilio per migliorare la diagnosi e la prognosi del neurotrauma. La misura di questa ed altre proteine al momento non è ancora disponibile per uso clinico, ma si auspica che questa ed altre ricerche incentivino una rapida introduzione della metodica per uso clinico».

 

Come è entrata a fare parte della ricerca?

«Anche grazie alla mia esperienza professionale precedente. Ho lavorato in Neurorianimazione e Neuroanestesia presso la Fondazione IRCCS Ca' Granda all’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano dal 2004 al 2018, occupandomi di pazienti critici affetti da patologie quali traumi cranici, emorragie, ischemie e tumori del Sistema Nervoso Centrale.

Nella mia carriera mi sono occupata, in particolare, di monitoraggio cerebrale multimodale e di tecniche avanzate di immagini cerebrale. Ho svolto e svolgo attività di ricerca in questo ambito e partecipo ad iniziative di studio nel settore. Collaboro a numerosi progetti di ricerca, come quello attuale, avvalendomi della collaborazione di numerosi colleghi e collaboratori, anche presso la mia attuale sede di lavoro,  la Terapia Intensiva Neurochirurgica dell’Ospedale S. Chiara di Trento. 

Il lavoro è poi frutto di uno sforzo congiunto che ha visto coinvolti clinici, come i medici delle rianimazioni, radiologi, neurochirurghi e ricercatori, ma anche i pazienti e le loro famiglie vittime di trauma cranico, una patologia purtroppo molto frequente, che hanno accettato di partecipare a questo studio e che ringraziamo».

Dottoressa, come riesce a conciliare i numerosi impegni clinici, la ricerca e la vita personale?

«Beh, riesco comunque ad avere del tempo libero, ed apprezzo il fatto di vivere e lavorare in Trentino. Sono sposata ed ho un bambino piccolo, ma ad esempio quando stavo a Milano, avevo bisogno di due ore al giorno solo per spostarmi da casa al lavoro. Qui apprezzo molto la bellezza dell’ambiente: essendo trentina, mi piace andare in montagna. Ed il fatto che mio figlio possa giocare in un bosco invece che solo in un parco, è un valore aggiunto».

Insomma, anche dal Santa Chiara di Trento si riesce a fare ricerca internazionale?

«Come tutti sappiamo, oggi possiamo essere tutti connessi, si può lavorare ovunque ed in qualunque situazione: leggo le e-mail mentre sono a passeggio, e posso fare delle call ovunque, come tutti. Trento poi diventerà sempre più una città interessante: basti pensare alla nascita della facoltà di Medicina, è una grande opportunità».

 

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