Addio al «maestro» dei telai Martedì i funerali di Pegoretti

Il mondo della bicicletta e del ciclismo è in lutto. Giovedì sera a Verona è venuto a mancare Dario Pegoretti, uno dei più grandi telaisti viventi al mondo. Trentino di Trento, Pegoretti che aveva compuito 62 anni il gennaio scorso, è rimasto vittima di un attacco cardiaco. Lascia il figlio Andrea e il fratello Gianni, con cui aveva collaborato fino al 2005 prima che le loro strade di dividessero in modo brusco senza più riavvicinarsi. I funerali si svolgeranno martedì 28 agosto alle ore 10 a Negrar.
Dalle sue mani che lavoravano in modo sopraffino solo ed esclusivamente l’acciaio, sono usciti i telai sui quali hanno pedalato autentiche leggende del ciclismo come Indurain, Roche, Pantani, Cipollini, Bettini e Boonen. La fama di Pegoretti era planetaria, a dispetto del fatto che nel suo Trentino (e la cosa un filino, ma giusto poco, lo infastidiva) e in Italia fosse pressoché sconosciuto. Un artigiano di altissimo livello, poco incline a farsi lisciare il pelo, che nonostante l’indifferenza che gli dimostravano, amava le terre dove era nato e vissuto, tanto che la sua officina è stata prima a Caldonazzo, poi a Marter e da qualche anno a Verona, dove Dario da ragazzo aveva imparato l’arte telaistica dal suocero Luigino Milani. Un amore per le proprie radici rafforzato dalla sua parlata trentino-veneta che, come accade alle poche persone veramente intelligenti, non gli ha precluso la capacità di aprirsi al mondo come solo pochi altri trentini sono riusciti a fare: basti dire che fra i suoi estimatori e possessori di suoi telai c’erano il compianto premio Oscar Robin Williams e il chitarrista Ben Harper.
«Fatto con le mani» sta scritto su ogni telaio realizzato da Dario Pegoretti. E Dario Pegoretti è stato uno di quelli che con le proprie mani e generose dosi di buon senso ha letteralmente costruito se stesso, seguendo una parabola d’altri tempi, fatta di gavetta e di segreti carpiti a mastri artigiani depositari di un sapere che non trovi né su internet, né sui libri, ma che si offre a chi sa leggerlo ed apprezzarlo nel «Lavoro» con la L maiuscola: quello manuale.
Sta tutto nelle mani («una meraviglia, l’arnese più versatile che esista in natura, di cui però stiamo perdendo l’uso»), orchestrate da un’intelligenza vivace e fuori dagli schemi disciplinata però da una rigorosa passione per il proprio mestiere, il segreto di questo artigiano trentino diventato probabilmente il miglior telaista del mondo.
Dario Pegoretti in America, Inghilterra e Giappone - i mercati ciclistici più raffinati - è considerato un vero e proprio guru dei telai in acciaio.
«Mi chiamano “maestro” e la cosa non nascondo che mi imbarazza - diceva Dario -. Stringi stringi, io non faccio che saldare otto tubi fra loro e non ho problemi a dire che secondo me sono sopravvalutato». Sarà anche, ma non la pensavano così i suoi clienti in fila anche per più di un anno pur di avere uno dei 320-340 telai che Pegoretti realizzava ogni anno nella sua officina-laboratorio.
Digitando il nome “Dario Pegoretti” su Google, si apre il mondo. Un’eccellenza italiana (trentina, valsuganotta) nel mondo, che però in ambito locale conoscevano in pochi, confondendolo semmai con l’omonimo Dario Pegoretti “inventore” del museo del paracarro di Canezza.
Possibile? Nella nostra Italietta che va a rovescio, tutto è possibile, anche che solo l’1% della produzione di questo artigiano d’èlite resti in Italia, e anche che Pegoretti ricevesse di continuo inviti da università e scuole di design di mezzo mondo per condividere con giovani interessati e motivati il suo enorme bagaglio di esperienza e nessuno nella terra in cui era nato e lavorava, avesse mai pensato a qualcosa di analogo.
«Nemo propheta in patria - sintetizzava Dario -. Oddio, non che ci soffra, anche perché mi sono sempre dedicato all’estero. L’unica cosa che mi cruccia un po’, è vedere la tradizione telaistica italiana che ha insegnato al mondo, a rischio estinzione. All’estero l’hanno capito: sono stato ospite a Taiwan di un’università che forma designer e stanno pensando di creare una scuola dedicata alla bicicletta coinvolgendo i 3-4 più famosi telaisti del mondo. C’è un fermento incredibile nel mondo attorno alla bicicletta. Tranne che da noi. E sì che se si elaborasse un progetto a modo, personalmente mi farei coinvolgere senza pretendere nulla in cambio».
Dario Pegoretti era rimasto uno degli ultimi depositari assieme a De Rosa, Tommasini, Zullo e pochi altri in Italia dei tanti segreti che si devono accumulare per realizzare telai di altissima qualità. Un archivio di nozioni ma soprattutto sensazioni (visive, tattili, olfattive) acquisite sul campo, che il telaista trentino aveva immagazzinato fin da giovanissimo, lavorando presso l’officina del suocero, Luigino Milani, telaista sopraffino di Verona. «Gli devo quasi tutto - riconosceva sempre Pegoretti -. E’ stato lui a farmi innamorare di questo mestiere, quando per me all’inizio, da studente Isef e corridore dilettante, peraltro sdrazz (modesto; in precedenza aveva fatto tutte le giovanili con l’Aurora di Trento ndr), rappresentava solo un impiego per mantenermi a Verona». Il corso di studi all’Isef di Dario, poi, si era fermato a tre esami dal diploma. Non così la sua passione per i telai. «Questo è un mestiere talmente invadente - diceva - che o diventa un amore che dura per sempre, o lo abbandoni all’istante. Per me è stata la prima cosa». Primi passi da garzone di bottega, quindi, a rubar segreti ai più esperti («che non ti insegnavano nulla, ma che si lasciavano guardare e se eri sveglio imparavi»). Poi i lunghi anni di lavoro oscuro da terzista soprattutto di Pinarello, buoni sia per velocizzarsi nel lavoro, che per affinare la tecnica della saldatura a Tig (è il periodo dei telai realizzati per Indurain), «ma con più lati negativi che positivi, visto che alla fine non prendi né gran soldi né gloria».
È a questo punto che nella vita di Pegoretti, era entrato in scena Giorgio Andretta, la seconda figura che chiave nella sua carriera dopo il suocero: «Ecco un altro italiano riconosciuto nel mondo e praticamente sconosciuto in Italia - diceva di lui con sincera ammirazione Dario -. Uno che nel ciclismo conta forte, titolare del marchio di abbigliamento Giordana, un colosso in Usa. Bene, avendo visto come lavoravo, provò a portarmi in America e lì probabilmente feci una cazzata. Era il 1991 e lasciai cadere la sua offerta: magari se fossi andato avrei fatto il passo giusto, ma nessuno può dirlo». Sta di fatto che Giorgio tornò alla carica qualche anno dopo, 1996-97 proponendogli di vendere i suoi telai in America: «Mi disse che potevo sfondare e accettai. Subito mi arrivò un ordine di 50 pezzi: ricordo quell’ordine come ossigeno puro».
Partì da qui l’irresistibile escalation di Dario Pegoretti alla conquista del gusto degli esteti della bicicletta d’Oltreoceano. Escalation quasi inconsapevole, di certo non inseguita correndo dietro a materiali nuovi e geometrie ardite. Sta infatti nella “riconoscenza”, sentimento quasi desueto, il perno del «Pegoretti-pensiero». Verso le persone (il suocero e i suoi insegnamenti sulle geometrie, come detto) ma anche verso i materiali.
«Io ho sempre fatto telai con l’acciaio e non l’ho mai abbandonato, anche quando sono arrivati l’alluminio e il titanio negli anni ?90 - raccontava -. E’ il materiale che conosco meglio di tutti gli altri, ci lavoro da 40 anni e presumo di capirlo più degli altri. Al di là di una ragione affettiva, comunque, io prediligo l’acciaio anche per questioni tecniche: è un materiale molto più “sincero” degli altri: se lo tratti bene non ti frega mai». Gira e rigira è sempre una questione di cuore e riconoscenza e le saldature invisibili di Pegoretti lo raccontano meglio di ogni parola.
Per spiegare chi fossero i suoi clienti, Pegoretti diceva che «è gente che comincia ad andare oltre al fatto di dire “ho una bicicletta”». Discorso scivoloso quando ad eccelse caratteristiche tecniche, un telaio di affianca valenza di oggetto di design.
A “tirare” è il telaio ben fatto e performante, o la grafica accattivante? «Da telaista a pelle ritengo che purtroppo la grafica influenzi molto il mercato» ammetteva Dario, che aveva scoperto una vena artistica anche nella fase della verniciatura dei telai. Pegoretti, uomo dotato di grande empatia, probabilmente aveva fiutato questa debolezza per l’estetica della sua clientela e l’aveva assecondata traendone pure divertimento. Lo si intuiva perché accettava sorridendo, quasi schermendosi, i complimenti sulle fantasie che ricoprivano i suoi telai («io però avviso sempre il cliente che non sono né un pittore nè un verniciatore»), ma si faceva serio quando parlava dei telai: «Il 90% del mio impegno è lì: nello studio del telaio, delle tubazioni più adatte a realizzarlo e nell’assemblaggio». Poi cerchi le saldature sul telaio. Non le trovi e allora capisci che ad un amante delle biciclette basta ed avanza quel risultato, fatto con le mani, per parlare di opera d’arte.

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