«La fotografia deve comunicare: meno stupore e meno elaborazione»

«La fotografia non deve stupire, deve comunicare: viene troppo spesso vista come un’azione meccanica di riproduzione del mondo, ma non è così. È un linguaggio, al pari di scrittura, musica o pittura». Anche per ribadire tutto questo, due anni fa è nato a Trento il Centro Cultura Fotografica, che oggi può contare su 220 soci, oltre a centinaia di ex allievi e persone che hanno partecipato al ricco programma di serate e incontri. A raccontarci è il presidente Adriano Frisanco, che è stato il motore per la nascita dell’associazione e ne resta un perno fondamentale, ma capace anche di dare vita a una «creatura» aperta, rivolta all’esterno, che dà spazio a tutte le idee e le voci. La fotografia è il suo mondo e parlarne con lui è come aprire gli argini di una diga: idee, opinioni, considerazioni, aneddoti, valutazioni non mancano.  

Perché l’esigenza di aprire il Ccf?
Nasce come risposta alle domande di allievi e persone dell’ambiente, per promuovere e diffondere cultura. La fondazione risale all’estate 2015, mentre nel 2016 abbiamo aperto le iscrizioni e nel 2017 ci siamo trasferiti nella sede a Gardolo. Ad oggi abbiamo più di 220 soci, dai 16 agli 80 anni, donne e uomini.
Diffondere cultura, quindi. Ma «contro» cosa?
Vorremmo essere un’alternativa alla banalità del modo di concepire la fotografia, che ultimamente viene vista più come un esercizio di narcisismo che un linguaggio di comunicazione. Siamo contro l’idea che il nostro mondo sia una gara per esibire la propria bravura, anche perché oggi questa viene espressa con un uso esagerato ed esasperato dell’elaborazione in post produzione. Basta guardare i social: mossi da un senso di competizione si alza il tasto della saturazione e si riesce a provocare un coro di «wow», che corrispondono a migliaia di «mi piace». Ma questo non è un modo per comunicare qualcosa, è solo una sfida per prendere più like possibili.
È innegabile che ci sia grande fermento intorno alla fotografia. E c’è anche un paradosso: nell’era dei milioni di scatti con il telefonino cresce la voglia di imparare (corsi) e la voglia di toccare (stampa).
L’esigenza di apprendimento è strettamente legata alle delusioni dei fotoamatori: di fronte ai primi risultati la frase che ricorre più spesso è «mi sono stufato di una foto buona e dieci no, i miei scatti sono imprevedibili». Per quanto riguarda la stampa, risponde a un bisogno di fisicità di tante persone, che vogliono tenere in mano i propri scatti. A tal proposito una nuova frontiera in crescita è la stampa su libro: oggi, a prezzi accessibili, si può stamparne anche una sola copia.
Lei è un professionista, si è occupato di fotografia pubblicitaria e industriale, ha iniziato a fare corsi nel lontano 1986 e dal 2000 ha collaborato anche con le scuole. Come sta il vostro mestiere?
Qui c’è un altro paradosso: proprio per il grande fermento che c’è la professione del fotografo sta scomparendo.
«Colpa» dei semi professionisti, o comunque di quelli che hanno anche un altro lavoro per poter vivere, o c’è anche altro?
Esistono queste nuove figure, che lo fanno per hobby, avendo la certezza di altre attività remunerative. Poi c’è internet, che ha messo a disposizione di tutto il mondo migliaia di foto a bassissimo prezzo, che quindi non vengono più commissionate a un professionista. E ancora: il digitale ha reso più facile correggere e migliorare uno scatto. Infine un po’ di congiuntura economica e i rendering che sostituiscono le foto e il gioco è fatto.
La fotografia meriterebbe più considerazione, quindi.
La si dà per scontata: ha uno spazio enorme nella quotidianità di tutti noi, ma viene vista come una semplice azione meccanica. Anche per rispondere a questo «analfabetismo» c’è il Ccf. Un bel passo avanti.

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