Giovanni Moser, «In Africa per aiutare i bimbi a nascere»

di Daniele Benfanti

Un'esperienza di sette mesi che sta tutta in una preposizione. Una preposizione semplice: «con». «Con» l'Africa. Che significa che i progetti di promozione e tutela della salute delle popolazioni africane vengono animati certo «per» loro ma anche e soprattutto «con» loro. Giovanni Moser è di Trento. Si è laureato in Medicina a Verona. Ora è al penultimo dei quattro anni di specializzazione in Igiene e medicina preventiva a Bologna. Mamma fisioterapista, due sorelle.

Primi sedici anni di vita a Gardolo, ora quando torna in Trentino raggiunge la famiglia nella casa di Villamontagna. Sabato Giovanni con altri colleghi di Medici con l'Africa Cuamm (sigla che sta per Collegio universitario aspiranti medici missionari), organizzazione non governativa fondata 67 anni fa a Padova, era a Milano per il meeting annuale, alla presenza del premier Gentiloni e del presidente Bce Mario Draghi. Giovanni ha raccontato l'esperienza in Uganda da ottobre 2016 ad aprile 2017, con il programma di parto assistito «Prima le mamme e i bambini». Ha trovato un paese in crescita, con relativa stabilità politica. Buone esperienze di microcredito. Si stanno formando infermieri e ostetriche. Pochi i medici. E la mortalità infantile sotto i 5 anni è del 66 per mille (in Italia è del 4). 

Dottor Moser, di cosa si è occupato in particolare?
«Non sono un medico chirurgo. Né il mio ruolo è stato clinico. Ma organizzativo. Certo, sul posto qualcuno era convinto che fossi lì per fare tagli cesarei e questo mi ha un po' messo in crisi. Invece ho fatto sopralluoghi e allacciato rapporti con i tanti capivillaggio e i mediatori (village health workers) per strutturare l'assistenza sanitaria alle partorienti. Il distretto ugandese in cui ho operato, quello di Oyàm, ha circa 400.000 abitanti. Una zona profondamente rurale, con terreni fertili, nel Nord del paese, e insediamenti sparsi. Il Nilo non è distante. Un piccolo dispensario missionario oggi è diventato l'ospedale di Abèr, dove nascono circa 2000 bambini l'anno, e poi ci sono tanti piccoli centri per la salute dove avvengono circa 12.000 parti l'anno senza medico. Tutto bene se il parto è regolare, ma se ci sono complicanze diventa pericoloso. Il 30% dei parti, infine, avviene in casa, spesso in condizioni igienico-sanitarie precarie».
Che esperienza è stata, per lei e per i pazienti di quelle zone? Che relazione si è creata?
«Diciamo subito che bisogna abbandonare la retorica sull'Africa ma anche evitare di immaginare il medico del Cuamm come una sorta di Indiana Jones in camice bianco. Fino agli anni Novanta il cooperatore bianco è stato visto come quello che porta aiuti a pioggia. Oggi si condividono i progetti e si negoziano gli impegni con la popolazione locale. Il medico volontario «con l'Africa» cerca di garantire i materiali di base per un parto, l'elaborazione di una cultura standard di sicurezza ed efficienza».
Mentre in Italia la questione vaccini diventa una querelle ideologica, come va in Africa?
«Ci sono ministri della salute di vari paesi africani che non si capacitano di come noi possiamo avere questo problema. In Africa sono in corso enormi campagne vaccinali e spesso, visti i numeri giganteschi, sono affidate anche a personale non qualificato. E questo è un rischio».
In Trentino è di attualità anche il caso della piccola Sofia, che ha perso la vita per un contagio di malaria ancora non chiaro. Com'è la situazione malaria in Africa?
«In Uganda ho dormito sette mesi coperto da una zanzariera. Ho fatto la profilassi antimalarica ma dovevo usare di continuo dei repellenti. Ai nostri centri sanitari arrivavano tanti bambini con emoglobina bassissima, colpiti spesso da malaria quasi asintomatica. Ho fatto io stesso donazioni di sangue».

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