Neuropsichiatria infantile: Costanza Giannelli lascia dopo 18 anni di direzione

di Patrizia Todesco

«Come ha scritto Mario Calabresi “C’è molta più umanità e verità nella difficoltà che nell’esaltazione della vittoria” e se guardare indietro è doloroso, c’è la nostalgia e la rabbia per quello che è successo, c’è la gratuità di un gesto fatto in modo irresponsabile che cambia per sempre la mia vita, di contro c’è la certezza di lasciarvi una cosa bella, una storia complessa che ho amato molto, e dove siamo cresciuti tutti, una creatura da proteggere e far crescere ancora. Vi auguro tutto il bene».
Con queste righe finali scritte a tutti i suoi collaboratori, Costanza Giannelli, dopo 18 anni di direzione di Neuropsichiatria infantile, saluta e lascia, per un certo senso si arrende, dopo il recente declassamento a Struttura Semplice Dipartimentale della unità operativa di neuropsichiatria da lei diretta.
Un curriculum ricco, ottime valutazioni aziendali, prestazioni in costante crescita questa professionista, vincitrice tra le altre cose anche di un concorso di poesia, è sempre stata dalla parte dei bambini, ma il suo percorso professionale è stato anche costellato da ostacoli.

Dottoressa Giannelli, a febbraio lei andrà a Bolzano. Una scelta sofferta la sua. Perché si è arrivati a questo?

In tutte le situazioni in cui si vive un cambiamento e un distacco, la scelta può risultare sofferta. In 18 anni di Direzione dell’unità operativa di Neuropsichiatria infantile, ho affrontato e superato molte sfide, ricostruzioni, fatto crescere quello che oggi è il nostro Servizio. Abbiamo raggiunto ogni anno il massimo degli obiettivi di budget assegnati, e, sul mio operato, ottime valutazioni, fino all’ultima di aprile 2019. Questo ha richiesto tutto il mio impegno e la mia passione. Amo molto questo lavoro e lasciarlo non è una scelta a cuor leggero, ma inevitabile, dopo la decisione del declassamento a Struttura Semplice. Nell’anno che verrà potrò valutare nuovi cammini e nuove sfide che già da giugno si sono presentate numerose. La più desiderata, la Direzione di una grande Struttura Terapeutica per minori resta in attesa perché è in altra regione, e in questo momento ritengo opportuno dare una stabilità di luogo anche ai miei figli. Ho declinato le offerte che mi replicavano come neuropsichiatra infantile perché è ancora fresco il distacco da tutto ciò che si era realizzato qua e ho preferito solcare nuovi orizzonti. Ho partecipato ad una selezione di Psichiatria e mi è stato offerta la guida del gruppo giovani con dipendenze patologiche. Vivo questa opportunità inaspettata e “adulta” come la fortuna di un’esperienza che amplia e rafforza cultura e conoscenza in merito alla gestione di una patologia , quella della dipendenza già nota al nostro servizio, in numero crescente di pazienti e ad età sempre più precoci.

Lo sdoppiamento dell’unità operativa di Neuropsichiatria infantile fu la scintilla da cui poi derivarono scontri e incomprensioni. Cosa in questi anni le ha fatto più male?

Dal 2002 al 2011 l’unità operativa ebbe il periodo di maggiore ampliamento e consolidamento. Fu realizzata ed aperta la Comunità Terapeutica di Villa S. Pietro ad Arco, furono conquistati gli spazi a Villa Igea per l’autismo, consolidato un modello di integrazione tra la funzione ospedaliera e territoriale, e come progetto Pat, fu richiesto l’ampliamento della funzione ospedaliera per la quale mi ero molto spesa, affinchè diventasse un riferimento provinciale per la continuità assistenziale sia neurologica che psichiatrica in età evolutiva. Durante la mia assenza per maternità fui chiamata in Provincia e mi fu annunciata la decisione di dividere l’Unità operativa. Non risultava una documentazione di programmazione sanitaria o evidenze leggibili che ne indicassero motivazioni, obiettivi o soprattutto , carenze da sanare. Ci furono tre primariati per 600.000 abitanti, fu diviso ciò che era unito, fu venduta e chiusa la Comunità Terapeutica. Tutto il personale medico e di comparto rimase nella Unità operativa di origine. Mi ritrovai con un tavolo e due medici a dover onorare un obiettivo Pat di implementazione di un nuovo servizio ospedaliero. Quello che fece male fu l’assenza di ogni condivisione, confronto o l’essere percepita solo come una voce fuori dal coro, quando l’obiettivo era garantire che ciò che era stato chiesto, avesse il migliore compimento. Vede, il conflitto è un gioco scorretto se le regole le decide uno solo.

I numeri dell’attività del suo reparto hanno continuato ad aumentare eppure la sua è stata l’unica unità operativa che è stata “declassata” dopo il decreto Balduzzi. Perché? A che punto siamo con il ricorso?

Il decreto Balduzzi del 2015 prevedeva il declassamento di primariati ospedalieri che avessero una soglia di utenza sotto al milione. A Trento avrebbero dovuto chiuderli tutti. Furono allora individuate alcune unità operative, lasciando alle Provincie ogni libertà di valutazione. Di fronte alla conferma del declassamento, e dopo che avevamo ricostruito pezzo per pezzo l’unità operativa, che rischiava una nuova batosta, feci ricorso al Tar. Mi rammarico molto di quello che accadde. Noi non avevamo ancora un codice di registrazione, quasi tutta la nostra attività e dati relativi erano accorpati alla Pediatria, dunque, per errore, il Dipartimento Salute mentale fornì dati di gran lunga inferiori alla realtà dei fatti. Nonostante sia stato fatto un lavoro immenso, grazie alla collaborazione di tutti gli uffici competenti dell’ospedale per recuperare e documentare i dati esatti e centuplicati, la valutazione del Tar si era basata su numeri e prestazioni non corrette. Sulla valutazione di numeri corretti, pende il Consiglio di Stato.

Lei in più occasioni ha fatto sentire la sua voce cercando di proteggere alcuni suoi piccoli pazienti.L’ultimo caso lo ha raccontato in un lungo editoriale. Vuole parlarne?

Nella vita di ogni medico, che è innanzitutto un essere umano, ci sono pazienti con i quali si crea un rapporto speciale, un destino misterioso di relazione, oltre alle cure dovute. Come mi scrisse Eugenio Borgna, che conosco e frequento dai tempi del suo primariato a Novara: “Se non si cerca di entrare in relazione con chi chiede aiuto , se non si sa decifrare quello che si nasconde oltre i sintomi, nella comprensione del mistero della cura, che non può non essere comunità di cura e talora comunità di destino, niente e nessuna procedura, oltre il deserto delle apparenze, avrà scintilla di senso e speranza (il passo lo si ritrova nel suo ultimo libro , Il fiume della vita. Una storia interiore, Feltrinelli 2020). I nostri pazienti hanno storie particolarmente complesse e difficili . Essere umani non pregiudica la nostra professionalità. La storia che racconto per metafora nell’editoriale, riguarda un tempo e un accudimento ulteriore che, con il consenso della madre e la condivisione scritta del Tribunale avevo dato ad una bambina, a lungo nostra paziente, affinchè potesse passare qualche ora fuori dalle mura dell’ospedale. Avevo chiesto un consenso solo verbale e non formale al collega, nuovo Primario della Pediatria, con il quale condividiamo spazi, spesso pazienti e trasversalità di funzioni. Ancora oggi mi è estranea e incomprensibile la reazione di questi, nei modi estrema ed eccessiva. La legittimazione di questa reazione, senza un confronto, una replica, una verifica dei fatti portò ad un ordine di non vedere la bambina e di non poterne seguire le sorti, innescando una catena di trasfigurazioni di realtà e conflitti che mai si erano verificati prima e rischiando di venire meno al delicato ascolto che pazienti piccoli senza voce, richiedono.

Primari e politica. Quanto conta avere un appoggio, avere il consenso di chi governa per poter rimanere sulla cresta dell’onda?

Nel sistema sanitario è importante che i due ruoli convivano e che collaborino : quello politico sostiene progetti, riconosce le competenze, vigila sui risultati a servizio della comunità. Dall’altra parte, il medico mostra la sua competenza portano numeri, risultati e risoluzioni e il consenso dell’utenza che fa capo a suo servizio. Questo noi lo avevamo. Ma se il politico non deve fare il medico e il medico non deve fare il politico, è vero che per un neuropsichiatra infantile, in modo più evidente rispetto ad altre professionalità, è necessario trovare riconoscibilità e legittimazione di esistenza in progetti sanitari e sociali comunitari, integrati e paritari per consentire un progetto di salute omogeneo in tutta la complessa rete che coopera per rispondere a temi delicati quale la fragilità in età evolutiva, la cronicità, la risposta all’urgenza. Se oggi l’obiettivo politico è il ritorno ad unica Unità operativa, come quando sono arrivata, vero è che la regia precedente aveva stabilito, come più efficace, l’esatto contrario. Nel mezzo a delibere opposte ci stanno dentro persone, medici, pazienti dignità e vite.

Si sono susseguiti una serie di assessori e direttori generali ma nessuno ha cambiato la delibera o è sceso in campo al suo fianco, nonostante la sua valutazione professionale sia ottima. Crede di essere ritenuta “scomoda”?

Sa, c’è un’immensa bibliografia su persone ritenute scomode che portavano nuove idee: persone che hanno alzato la testa e hanno azzardato con coraggio e determinazione ad andare contro il pensiero comune del tempo, contro un sistema che, spesso e nonostante tutto, riesce a prevalere. Ma rispondo con i fatti, più semplici della domanda. L’Assessore Rossi volle lo sdoppiamento, solo successivamente uscì il decreto Balduzzi che prevedeva il declassamento. Quando Zeni assunse l’Assessorato ereditò anche la sentenza del Tar. La situazione era più complessa. Da parte dell’Assessorato mancò la disponibilità a modificare tale decreto. Nel contempo la Direzione Generale dell’Azienda Sanitaria ottenne una proroga di un anno. Per rivedere la storia e tutta la sua verità, sarebbe stata necessario una inversione di marcia e un approfondimento della nuova regia di governo che purtroppo non è avvenuta. Su tema delibera ho avuto occasione di incontrarmi solo con il nuovo Direttore Generale dell’Assessorato, appena arrivato a Trento. Mi disse che la Provincia non aveva nessuna indicazione scritta dall’Azienda Sanitaria al fine di poter promuovere un cambio di delibera. Mi consigliò di trovarmi un altro posto, - perché - disse - quando c’è dissenso, bravi o non bravi, è necessario andarsene. Ecco ho seguito il consiglio. Vede che non sono conflittuale?

Quale è il suo più grande rammarico ora che se ne va?

Guardi, è come un amore non corrisposto. Succede. Come scrive Ester Viola” certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano, ma solo per dirti quanto eri fesso”. Ironia a parte, ho dato tutta la passione, l’ impegno, il tempo, per questo lavoro che amo , per i pazienti che ho avuto, affinchè potessero avere storie e alternative di vita e di cura. Ho creduto fermamente nel servizio ospedaliero che accoglie e gestisce l’ingestibile e i cui risultati nessuno ha mai potuto confutare. Ho creduto nell’ importanza e nel valore dell’onesto procedere in ogni azione, con il mio temperamento, non sempre incline alla mediazione , ma aperto ad ogni confronto. In questi pochi mesi ho ricevuto parole, scritti di famiglie, colleghi, persone lontane e vicine, che mi hanno restituito tutto il senso. Chi c’era davvero lo sa, e ha capito.

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