Montagna / Il libro

Salvaterra, l'uomo del Cerro Torre: quell'amore infinito in Patagonia

Il forte alpinista di Pinzolo ha presentato il suo volume "Patagonia. Il grande sogno. Io e il Cerro Torre: una passione ai confini del mondo". «È un libro per tutti, non solo per gli alpinisti e gli scalatori, e vorrei che per un minuto riusciste a immaginare cosa vuol dire stare su quella parete»

 

di Alberta Voltolini

PINZOLO. «È un libro per tutti, non solo per gli alpinisti e gli scalatori, e vorrei che per un minuto riusciste a immaginare cosa vuol dire stare su quella parete».

L’invito che Ermanno Salvaterra, l’alpinista di Pinzolo conosciuto nel mondo come “l’uomo del Torre”, ha fatto sabato alla presentazione del suo nuovo libro, «Patagonia. Il grande sogno (sottotitolo: "Io e il Cerro Torre: una passione ai confini del mondo)», sarà sicuramente colto dai lettori appassionati di montagna. Basta infatti leggere le prime pagine per trovarsi immersi in una storia affascinante che parla prima di emozioni, illusioni e disillusioni, fatica, tenacia, tentativi riusciti e fallimenti, ricerca della bellezza di fronte alla maestosità della natura e nei piccoli gesti quotidiani, e poi di conquiste e di tecnica.

Quella tra Salvaterra e il Cerro Torre, selvaggia Patagonia, è una storia d’amore iniziata nel 1982 e forte ancora oggi. Sulle tracce di quanto avevano fatto, prima di lui, i suoi conterranei trentini-campigliani Cesare Maestri e Bruno Detassis, arriva “ai confini del mondo” e si lega per sempre a quei luoghi lontani fino a essere considerato (con l’alpinista italo-argentino Rolando Garibotti) il più grande conoscitore del Cerro Torre.

Il libro, pubblicato per Mondadori, è stato presentato al Paladolomiti, ritornato ad ospitare un importante appuntamento culturale dopo molto tempo. Promosso dal Comune di Pinzolo e organizzato dalla Biblioteca comunale, l’incontro è stato coordinato dal giornalista Alessandro Filippini, penna “alpinistica” della “Gazzetta dello Sport”, con la presenza di Reinhold Messner, che ha curato anche la prefazione del libro di Salvaterra.

«Il Cerro Torre si trova in una terra magica - ha detto l’alpinista altoatesino - con delle montagne granitiche che sono uniche al mondo. Tuttora rimane il simbolo della montagna dell’impossibile». Su quei difficilissimi pilastri granitici, Salvaterra è stato protagonista di numerose avventure e imprese: compiute, rimandate, sognate. Centotrenta le notti vissute appeso alle strapiombanti pareti verticali del Torre sferzate dal vento.

“La prima volta” è stata nel 1982, lungo la “Via del compressore” con Elio Orlandi, ma il tempo, che là detta la legge più dura, costrinse la cordata alla rinuncia mentre è il 1983 l’anno i cui, con Maurizio Giarolli, raggiunse per la prima volta la cima. Del 1985 (con Andrea Sarchi, Paolo Caruso e Giarolli) è la prima salita invernale al Torre, rimanendo 11 giorni in parete. C’è, poi, nel libro, un capitolo che ricorda Fabio Stedile e, ancora, il racconto del 1995, con Piergiorgio Vidi, Roberto Manni e l’apertura di “Infinito sud”.

Nel 2005, con Rolando Garibotti e un giovanissimo Alessandro Beltrami (23 anni), realizza la ripetuta della discussa impresa compiuta nel 1959 dalla cordata Egger-Maestri. Oggi Ermanno Salvaterra ha 66 anni e da tempo, a conclusione dell’ultima scalata, dice: «Questa volta è l’ultima». Nel frattempo, tra decisioni e ripensamenti, dal 2012 compie numerosi tentativi per conquistare la vetta salendo dalla parete ovest della Torre Egger. Tre anni fa ci ha rinunciato a 200 metri dalla cima.

«C’è stato anche un momento - scrive nel suo libro - in cui ho giurato che bastava così, che avrei chiuso e non ci avrei mai più provato. Ma poi… ci sono ricascato. E ho riprovato. E riprovato, riprovato ancora. Fino ad arrivare a oggi quando, costretto a casa dalla pandemia, che affligge il pianeta da oltre un anno, continuo a sognare, immaginare, pianificare e giocare con il mio progetto. “Ci sono ricascato”. Detto così sembra che io stia parlando di un vizio, di una dipendenza. E forse in qualche modo è così. Ma credo si tratti di una dipendenza sana, creativa, dunque vitale. Il bisogno di sentirsi vivo tramite la coltivazione di un sogno, di una passione, di un amore. Non mollo, tengo duro e stringo i denti. Questo, in definitiva».

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