Miti del calcio, Maradona non si può discutere

Caro direttore,
con tutto il rispetto, non concepisco quasi niente delle osservazioni fatte da un lettore giorni fa che portava a sminuire le tante dimostrazioni di affetto e dispiacere per la dipartita di Diego Maradona.
Ma come si fa a confrontare nel 2020 il Pibe con giocatori meravigliosi ma di altra epoca e che le attuali generazioni neanche hanno mai visto calcare un campo di calcio. Altri tempi per lo sport, per la vita sociale e per la comunicazione (soprattutto social) quindi non confrontabili.
Ed un'altra cosa, nessuno può giudicare la vita degli altri a parte il fatto che, oltre all'indiscusso talento calcistico, Maradona ha sempre riconosciuto le sue debolezze ed errori e chi l'ha frequentato ha rilasciato solo testimonianze di persona umile e di grande cuore.
Uno che nella ricchezza è rimasto povero dentro, che da grande talento è rimasto umile amante del calcio.

Roberto Pitzianti


È stato un mito assoluto


Di fatto, ho già risposto rivolgendomi nei giorni scorsi ai lettori che parlavano del grande Piola.

In assoluto, penso che molti di noi - me incluso, ovviamente - tendono a confondere i propri miti (legati spesso a un momento della vita, a ricordi indelebili, al desiderio di diventare un giorno come loro) con i miti per così dire assoluti, riconosciuti dalla storia ancor prima che dai tifosi. Faccio un esempio banale: ognuno di noi, almeno in una stagione della sua esistenza, toccando un pallone, se n'è uscito autodefinendosi col nome di un grande campione.

Per darle un'idea, quando io ero in porta, dopo ogni parata, mi dicevo: «E Zoff para ancora una volta» (cercando di emulare il grande Dino, ma anche imitando la voce di Ciotti o di Martellini mentre ne raccontavano le gesta).

Come andavo a giocare in attacco mi definivo Rossi (spesso, perché i miei gol erano di rapina) o Platinì e avanti così. E quando giocavo a basket - come Fiorentino, che ha scritto di Piola, ben ricorda - mi sentivo Marzorati (mito che certo non potrei affiancare a quello di Jordan, di Johnson o di Julius Erving), trasformandomi in Thöni quando inforcavo gli sci o in McEnroe quando impugnavo la racchetta da tennis.

Quelli erano i campioni della mia generazione.

Poi però ci sono i campioni di ogni generazione, i campioni che conquistano l'immortalità: i miti, appunto. E Maradona - alla faccia dei suoi tanti errori, che in fondo ha sempre riconosciuto e che hanno fatto male solo a lui - è stato questo. Un mito assoluto.

E molto altro: il simbolo di rivoluzioni (non necessariamente giuste, anzi), di emancipazioni (il Sud del mondo o semplicemente d'Italia che sconfigge il Nord), di cadute e di resurrezioni, di sconfitte (non ha mai nascosto le lacrime) e di vittorie (con lui ha sempre vinto un universo vasto, sconfinato) e di bellezza: perché con la palla fra i piedi quel genio assoluto del calcio dipingeva, inventava, creava. Andando oltre l'immaginazione, oltre la fisica. E questo resta.

E vale molto più dei suoi errori, che per paradosso hanno contribuito ad esaltarne le vittorie.
Perché i miti sono spesso un po' dannati, no? Hanno bisogno di fango e di raggi di sole.

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