Mitezza, giornalismo e democrazia

Mitezza, giornalismo e democrazia

Mitezza, giornalismo e democrazia

Il Presidente Mattarella, a Trento di recente per il centenario della nascita di Chiara Lubich, ha affermato che la mitezza intesa non come semplici buone maniere ma quale sostanza è necessaria per la vita civile democratica.
Io penso che i giornali abbiano un ruolo politico e culturale fondamentale nella vita civile democratica, per questo ritengo spettino loro contributi pubblici, così come per l’arte e lo spettacolo. Per questo penso che la mitezza, cioè l’umanità di carattere, rientri tra le responsabilità di un giornalismo equilibrato, senza sensazionalismi né stereotipi.

Mi ha profondamente delusa il modo in cui il 28 gennaio la stampa locale ha riferito della sentenza di primo grado che condanna Cornelio Coser a 9 mesi per lesioni e percosse contro Agitu Idea Gudeta, fatto avvenuto a Frassilongo nell’estate del 2018. La giudice ha emesso una condanna pesante, ma non ha considerato il reato di stalking con l’aggravante di offesa razzista rivendicate dall’accusa.
Come hanno dato questa notizia Il Corriere del Trentino, Il Trentino e L’Adige?

Il Corriere con una locandina che strilla «Caso Agitu, cade l’aggravante razziale: solo lesioni». Il Trentino col titolo «Condannato per le minacce ad Agitu, ma cade l’odio razziale». L’Adige con in prima pagina «Agitu, non fu razzismo» ripresa all’interno con «Agitu aggredita, condanna a metà» seguito da un pezzo complementare sull’aggressore intitolato «Dipinto come mostro, non lo sono».

Spesso, purtroppo, dei quotidiani si leggono solo i titoli. È opportuno allora chiedersi cosa comunichino questi cinque titoli.
Prima di tutto comunicano uno stereotipo molto diffuso: chiamare chi ha origini straniere col solo nome proprio (di solito dare del tu, anche). Facciamo una prova? Chiedo: se invertiamo i ruoli di aggressore e aggredita, ignorando le politiche di genere in atto, avremmo potuto leggere Cornelio invece di Coser nei quattro titoli? No di certo.
Poi comunicano un messaggio inquietante per la sua uniformità: lei ha perso e il suo nome va gridato, lui ha vinto e il suo nome va sottaciuto. Il risultato di questa comunicazione è che l’aggredita figura come perdente, l’aggressore come vincitore. Ma non si tratta di una partita di calcio, queste sono vite vissute, questa è la giustizia che definisce la nostra comunità. A raccontarle ci vorrebbe più mitezza, più misura, più umanità.

Nel rispetto dovuto alla sentenza, la notizia da dare alla comunità è che nei boschi di Frassilongo un uomo ha aggredito fisicamente una donna procurandole lesioni ed è stato condannato, e farne il nome.
C’è poi una considerazione più ampia, politica, da riservare a un editoriale: la giustizia fino a questo grado non ha considerato i reati di stalking e razzismo. Liliana Segre al Parlamento europeo il 29 gennaio, ha ricordato che antisemitismo e razzismo (aggiungo: sessismo e altre forme di odio) si annidano sempre nei cuori dei poveri di spirito. È dunque utile per la nostra democrazia chiedersi se non vi sia potuto essere del sessismo che ha nutrito il terreno in cui l’aggressore ha minacciato, offeso e aggredito la donna, sua vicina di casa. è altrettanto utile chiedersi se quel terreno possa essere stato fertilizzato da sentimenti razzisti, visto che l’aggredita è una donna nera di origini eritree e chi l’ha assalita è un uomo bianco del luogo. Sono domande che ci dobbiamo porre sempre, per non lasciare spazio all’indifferenza, pericolosa alleata della violenza di ogni tipo.

Al pari, è legittimo interrogarsi su un altro diffuso stereotipo: l’abitudine di trasformare la violenza contro una donna in una faccenda solo privata, a volte addirittura intima, fra un lui e una lei. Questa abitudine ha segnato una storia troppo lunga di indifferenza e incredulità da parte della giustizia davanti alle parole di lei, parole la cui rilevanza pubblica è sempre stata sottovalutata.

Le cose stanno cambiando, ma dobbiamo ancora spingere perché questo cambiamento si compia. I dati sulla violenza contro le donne nelle nostre società cosiddette avanzate ci impongono vigilanza critica, affinché si comincino a cambiare le teste, le parole e i comportamenti quotidiani che rendono possibili questi crimini.
Per questo credo che la nostra comunità meriti una comunicazione più misurata e compassionevole, più mite che ci accompagni nel cambiamento necessario a contrastare la violenza.

Giovanna Covi


 

Non so cosa sia l’indifferenza

Professoressa, lei sa bene che io apprezzo sempre le critiche e che delle sue faccio tesoro. Allo stesso modo le devo dire che questo giornale s’è schierato sempre con Agitu.

Sì, la chiamiamo per nome, perché tutti la conoscono col suo nome e non certo per sminuire questa persona. Il giorno della sentenza (che rispettiamo, com’è giusto) abbiamo fatto il nostro dovere: dicendo che secondo i giudici le cose sono andate in modo leggermente diverso. Sia chiaro: la condanna resta, ma il fatto che venga meno l’elemento del razzismo è una notizia.

A mio avviso lei cita in modo sbagliato la senatrice Segre - che per me è un esempio e uno stimolo quotidiano -, perché i giudici dicono che non ci sono stati i reati contro i quali la senatrice si batte. Mi creda, la nostra comunicazione resta, almeno nelle intenzioni, misurata. Compassionevole, ma è inutile che lo dica a una docente di lingua e letterature come lei, è un termine che non s’addice alla cronaca giudiziaria, che deve essere appunto misurata, obiettiva e anche distaccata. Perché noi facciamo i cronisti, non i tifosi. E lo lasci dire a me, che da sempre faccio campagne per ogni tipo di parità e che per questo ricevo anche spiacevoli lettere anonime. Non so cosa sia l’indifferenza.

Se invece c’è qualcosa che le è parso stereotipato, le prometto che farò ancora più attenzione e che cercherò di evitare quelle espressioni che tanto tempo fa, sull’Espresso, lo scrittore Saviane (da non confondersi con Saviano) definiva autoadesive. La vigilanza critica resta, persino al cospetto delle sentenze. Ma noi facciamo - e in fondo in questo siamo simili ai giudici - un mestiere diverso, che ci impone anche di andare oltre le apparenze. Proprio perché non siamo di fronte a una partita di calcio.

a.faustini@ladige.it

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