Eugenio Barba e i 60 anni dell'Odin Teatret

(di Daniela Giammusso) (ANSA) - ROMA, 19 APR - "Se mi guardo indietro, non cambierei un singolo dettaglio. Tutte le decisioni che ho preso, tutti gli sbagli che ho fatto, ripeterei tutto. Però non ho realizzato un grande sogno: imparare a suonare il violino". Non perde la battuta Eugenio Barba, l'ultimo maestro teatrale d'Occidente, allievo di Jerzy Grotowsky, soprattutto fondatore di quel progetto unico di Teatro di ricerca multiculturale che è la compagnia dell'Odin Teatret. Nata a Oslo, in Norvegia, nel 1964, poi stabilitasi in Danimarca a Hostelbro, cresciuta facendo del training dell'attore il suo fulcro tra collaborazioni importanti anche con Jacques Lecoq, Dario Fo, Krejca, Luca Ronconi, il Living Theatre, il prossimo anno l'Odin compirà 60 anni e festeggia con un progetto lungo un anno, nato in collaborazione con il Teatro di Roma. "E' il segno che il teatro comincia a ripartire sul serio", commenta la commissaria straordinaria del TdR, Giovanna Marinelli. Si parte dunque il 20 maggio, alle Olimpiadi del teatro 2023 a Budapest, con la prima mondiale di Anastasis (Resurrezione), inno al potere dell'esistenza e omaggio all'arte, in cui Barba ha riunito 70 artisti della Scuola internazionale di antropologia teatrale fondata nel 1980. Il progetto prosegue poi nel 2024, al teatro India, con un mese diviso in due fasi dedicato al mito creativo e alla pratica pedagogica della compagnia (8-31 maggio). Si va dal debutto di Una giornata fatale del danzatore Gregorio Samsa, evoluzione dello storico spettacolo firmato da Barba con il protagonista Lorenzo Gleijeses e Julia Valery, al calendario di masterclass, presentazioni e incontri. Nella seconda fase, l'evento celebrativo organizzato da un comitato scientifico, il ritorno de La casa del sordo. Capriccio su Goya del 2019 e la prima nazionale di Compassione. Tre panorami di speranza in primavere. "Mi sento come il figliol prodigo che torna a casa dopo 23 anni", sorride Barba, ricordando la collaborazione con Mario Martone. "Sento che riusciremo a ricreare lo stesso fermento - dice - In Scandinavia, si dice che una persona è morta perché 'era sazia di vita'. Ecco, io sono più che sazio. Ma quando la gente mi chiede perché continuo, mi viene in mente quando da ammiravo persone di grande valore che avevano un capitale: il prestigio. È sempre stata la mia ossessione riuscire a sfruttare al meglio il mio prestigio. Ovviamente, non per me". Tornando poi a quel primo "gruppo di attori" che si formò insieme a "persone rifiutate dall'Accademia, a chi aveva avuto problemi di tossicodipendenza o aveva creduto nella rivoluzione ed era rimasto ai margini", ripensa, "per noi, il teatro era un rifugio. Sono cresciuto tra i poveri del teatro, non i ricchi, tra quei gruppi che non hanno riconoscimenti e devono combattere". Oggi? "È il momento di far esplodere le cittadelle del teatro, perché questo è il bello oggi, che siamo un arcipelago", risponde. Anche se "il mondo è molto cambiato - aggiunge - e mi appare confuso per questa invasione della tecnologia che a volte toglie dignità. Mi fa molto dolore, ad esempio, vedere gli attori che recitano con il microfono. I giovani non sfidano più delle loro possibilità, non solo espressive ma spirituali". Ma di cosa il maestro è più soddisfatto in questi sessant'anni? "Se riesco a far collaborare la mano sinistra e la destra, chi ha e chi non ha - sorride - L'utilità dell'Odin Teatret, la sua vocazione, era unire le diversità nella nostra professione. La fatica? Fondamentale. Noi facevamo anche quattro, cinque ore di training. Non che gli attori poi fossero migliori, ma perché continuando esausti scoprimmo che arrivava un altro tipo di energia. Ecco, se l'Odin Teatret resiste ancora dopo tanti anni, forse è perché ci siamo abituati a lavorare stanchi". (ANSA).